Cass McCombs - Tip Of The Spheres (2019)
Si muove su un equilibrio compassionevole e sperimentatore Tip Of The Sphere, un disco dalla natura nebulosa e mistica, quasi un salto nel buio che al posto della paura provoca un’avvolgente fascinazione. Nel tentativo di dare un ordine al suo inarrestabile processo creativo, il cantautore americano fluttua attraverso una serie di canzoni guidate da un dadaismo itinerante e da una grazia oscura. Col suo nono lavoro, Cass McCombs continua a fare progressi nel pantheon dei cantautori americani, vestendosi da plasmatore del proprio mondo, mostrando radici ferme tanto nel terreno post-punk degli esordi quanto in un’ancestrale sospensione di ombre polverose e maschere imperfette. Profondo rispetto per la tradizione e desiderio di suonare sempre innovativo sono la combinazione perfetta che ne fanno, ancora una volta, uno dei migliori cantautori della nuova generazione, sebbene un po’ meno empatico rispetto al fulgore mostrato in Mangy Love, disco della maturità, quello che lo ha fatto spiccare in ogni tipo di classifica,
A differenza della maggior parte dei suoi album, scritti e registrati in tempi molto lunghi, Tip Of The Sphere è stato registrato rapidamente e con un forte sentimento d’urgenza al Figure 8 Studio di Brooklyn. Il nuovo approccio ha consentito a McCombs di portare le sue canzoni a una immediatezza e a uno speciale equilibrio di compassione e sperimentazione: questo è il suo album più elegiaco e profondamente letterario, una celebrazione della fine dei tempi e un’articolazione di massa dell’assurdo mondo della modernità. La sua predilezione per l’obliquo investe l’ascolto di Tip Of The Sphere, nono album in studio che presenta undici brani dalla vasta gamma di input, dal country al ragtime al jazz, dal boogie alla poesia beat. Per l’enigmatico viandante che è McCombs, qui nei panni di troubador, è arrivato il momento di rivisitare il rock degli anni ’70 e ’80 dando vita a un dialogo vulcanico e poliglotta.
C’è un senso di bisbetica libertà nell’immaginaria conversazione tra un hippie che vive per strada e uno spettatore giudicante che dà vita ai sette minuti di I Followed the River South to What, mentre solo un riff di chitarra semplice ripetuto come un mantra e lo storytelling di McCombs investe The Great Pixley Train Robbery, scritta invece dalla prospettiva di un fuggitivo che ha rapinato un treno nella California nel 1889. Estrella, tributo al compianto artista messicano Juan Gabriel, unisce chitarra e basso (di Dan Horne) con sinfonica fluidità, mentre in Absentee, intrisa da un organo Hammond che balla un valzer, McCombs rimugina su ricordi ancestrali – i colonialisti britannici durante la carestia di patate irlandesi, la nostalgia, la fame e i luoghi non custoditi nel cuore – finendo per appoggiarsi a un sottile sassofono. Real Life, col suo ritmo propulsivo e liquido tipico del miglior George Harrison, apre le porte alla melodia quieta di Sleeping Volcanoes, prima che questa si trasformi in una supplica dinamica: qui l’autore contempla un’apocalisse imminente e intona «Help me Armageddon, help me Armageddon/Help me to be calm», con quel tipo di calma impertinente che maschera un evidente senso di disagio. Si entra in un groove psichedelico e coinvolgente con Sidewalk Bop After Suicide, prima di perdersi nel tremolio sognante e bowiano di Prayer For Another Day, fra una pedal steel ultraterrena e percussioni lontanissime. Il suono multidimensionale di cui McCombs è capace porta all’incontro fra musica e poesia nel groove desertico di American Canyon Sutra, un mantra parlato à la Ginsberg, capace di coniugare l’elettronica moderna al trip acido di un Jim Morrison che declama la sua American Prayer.
Il songwriting dell’americano parla di «persone che passano sul marciapiede inconsapevoli della volatilità emotiva che stanno sfiorando, come un vulcano addormentato che potrebbe esplodere da un momento all’altro». E non importa più trovare testi rapsodici, pronti a condannare la dura realtà del razzismo: oggi un brano brilla nella sua ingannevole semplicità, nel mescolare il bello e l’orrendo, nel dissipare la nebbia lontana delle jam old school. Oggi il camaleontico Cass, magnetico e inconfondibile, suona il rock, modesto, familiare, pronto a richiamare il canticchiare sincero dei cantanti folk e blues. In Tip Of The Sphere le ombreggiature e la complessità raccontano una storia diversa, ora più accessibile (come avviene nella prima metà del disco), ora più ostica (la seconda parte dell’ascolto), senza perdere la fortezza insormontabile della vera canzone d’autore. E si rimane sempre sorpresi dalla piega che prendono i suoi brani, dove dietro l’apparente semplicità della prima impressione, si può svelare una miriade di accordi sottili e astrazioni sonore.
«I wanna live in a day like today / But not today»: se il mito di McCombs sembra vagare confuso nei testi incredibilmente oscuri, la vivacità dell’album e del suono esistenziale, oltre il qui e ora, rivive di una nostalgia autoindulgente. Possiamo ringraziare il sentimento curioso di un uomo che ha sempre ribadito il suo non essere al passo con lo spirito del tempo. Nella mancanza di duttilità di fronte al contemporaneo troviamo un senso anche a quella beckettiana impossibilità fisica del titolo del disco, la punta della sfera, già. Cass ci ha fregati, ancora una volta.
Commenti
Posta un commento