Sun Kil Moon – I Also Want To Die In New Orleans (2019)

di Giuseppe Loris Ienco

Caro Mark Kozelek, quando ti deciderai a prendere un piccolo periodo di vacanza? Negli ultimi anni l’ex leader dei Red House Painters ha pubblicato talmente tanti album da aver praticamente ridotto a zero l’attenzione che il pubblico, fino a non troppo tempo fa, riservava alle sue uscite. Che con questo “I Also Want To Die In New Orleans” possa esserci un’inversione di tendenza? Può darsi; d’altronde, non capita di certo tutti i giorni di ritrovarsi a registrare musica con artisti del calibro di Jim White (il batterista dei Dirty Three) e Donny McCaslin, sassofonista di estrazione jazz noto soprattutto per la sua collaborazione con David Bowie nell’epitaffio “Blackstar”.

I due nuovi compagni di viaggio contribuiscono in maniera determinante all’ennesima trasformazione del progetto Sun Kil Moon che, sempre più lontano dai lidi folk di gioielli quali “Ghosts Of The Great Highway” e “Benji”, prosegue indisturbato il suo viaggio nelle verbosissime acque di uno spoken word altamente indigesto. Ormai lo hanno capito anche i sassi: Kozelek adora i monologhi e vuole renderci partecipi di ogni singolo aspetto della sua vita.

“I Also Want To Die In New Orleans” contiene appena sette tracce ma si trascina per la bellezza di un’ora e mezza. Troppo per noi comuni mortali ma, a quanto pare, decisamente poco per il padrone di casa: dalle prime battute della spettrale “Coyote” agli ultimi secondi della mastodontica “Bay Of Kotor” (ventitré minuti di durata!) non chiude la bocca per nemmeno un attimo. Suggestivi accenni melodici emergono di tanto in tanto come fossero un miraggio; un’illusione alla quale aggrapparsi per tirarsi fuori dall’incessante nubifragio di parole inutili, recitato col tipico piglio indolente/stonato del cantautore dell’Ohio.

Che si ritrovi a parlare del massacro alla scuola elementare Sandy Hook o di una fastidiosa invasione di puzzole, fa poca differenza: Mark Kozelek declama i suoi versi con la verve di un uomo alle prese con un terribile caso di sonnolenza post-prandiale. A salvare la baracca è la musica: con McCaslin e White al suo fianco, il nostro si esalta e conferma per l’ennesima volta di essere un chitarrista sopraffino, flirtando a più riprese con un jazz dalle tinte oscure e assai raffinato. Il feeling instauratosi all’interno di questo meraviglioso trio è evidente: nei brani regna un’alternanza di mood, stili e generi tale da rendere interessante l’ascolto di un’opera che altrimenti sarebbe stata il trionfo della noia.

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