Kel Assouf – Black Tenere (2019)

di Riccardo Gorone

La musica non ha mai avuto confini, poiché è lo stesso uomo che la produce a non averli. Se abbiamo dei confini, generalmente, dobbiamo dare la colpa a noi stessi che non ci spingiamo più in là del nostro naso. Può accadere che quei confini, quei limiti ci vengano imposti, e a quel punto è difficile contrastarli, ma vale la pena tentare. Ci sono culture e civiltà che i confini li vivono per poi viverli nel loro continuo oltrepassamento.

In questo caso parliamo dei Tamashek, più comunemente conosciuti (e battezzati da noi bravi coloni europei), Tuareg, nello specifico, parliamo di Kel Assouf. Nato e cresciuto in Nigeria e trapiantato a Bruxelles in cui vive da undici anni con la sua famiglia. Verso orizzonti acustici che includono il rock della “tradizione” (Led Zeppelin, Black Sabbath, QOTSA, e così via) e la musica nelle sue attuali tendenze europea. Proprio queste differenti anime vengono tenute insieme dal disco “Black Tenere“. “I miei gusti musicali non sono cambiati ma si stanno espandendo grazie agli incontri, alla mia curiosità. Black Tenere è un disco rock, ma questa è una scelta per dare un tocco di autenticità al sound di Kel Assouf che riesce a differenziarsi rispetto ad altri gruppi di musica Ishumar. Per me la musica deve viaggiare e deve essere aperta ad altri suoni in modo che ognuno possa ascoltare i messaggi che porta”.

Questa è difatti la capacità della musica: comunicare. Solo così è possibile riunire le culture e nel contempo “identificarle”, fare mantenere le loro identità e differenze. Nel caso del pezzo Fransa, le parole che si susseguono nel testo non sono chiare, sono cristalline, senza troppi giri di parole, denunciano quello che vogliono denunciare: un fenomeno tangibile e più che mai attuale – “La guerra durante la colonizzazione francese è stata vinta / dalle spade, dagli scudi e dai dardi dei nostri antenati / Come volete che i potenziali alleati vi procurino cannoni moderni e missili? / Vedete le vostre sorelle arrampicarsi sulle montagne del confine (Tassili) / clandestinamente, esauste, sulle loro ginocchia con i piedi feriti”.

Questa è una cronaca. E’ parte di una storia che spesso, troppo comodamente, non vuole essere riesumata, ed è proprio questo che “Black Tenere” affronta: la tragedia del popolo Tamashek, la sua storia dalla colonizzazione fino ad oggi, e tutti i cambiamenti geopolitici che sfruttano il deserto per sue risorse naturali. Anche questa custodia della natura è un altro dei temi sottesi dentro tutto il disco: “Io seguo le orme delle antilopi / Io vivo il deserto e le sue tempeste, / il mio fiore preferito è quello dell’acacia. Si chiama Tabsit. / Il suo profumo è quello della libertà e della solitudine, / Lontano dal tumulto della vita di città”.

Al di là di tutto quello che può essere definito musica, c’è poi una sostanza che è figlia della cultura “occidentale”: quello della parola che è portatrice di senso, logoforo, uno strumento che non è già risultato. Il suo risultato primario non è la parola in sé, ma l’ascolto, qualcosa di completamente diverso rispetto alla musica che sì, richiede ascolto, ma non è strumento per un fine che ha da venire: è essa stessa il suo fine. Ma la parola, quella cosa che sfiora la vita, che prendiamo troppo alla leggera, che usiamo come arma, che scagliamo addosso al prossimo, che serve per nascondere mostruose verità, quella parola, va rivoltata contro se stessa, alla ricerca dell’ascolto, in un possibile deserto della nostra mente.

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