Jessica Pratt – Quiet Signs (2019)

di Vassilios Karagiannis

Per ventisette minuti, la quiete vi reclamerà a sé. Non lo farà attraverso blande moine o incantevoli scenari da sogno, si paleserà invece in tutta la sua forza, arrivando addirittura a silenziarvi se lo riterrà necessario. Il tramite scelto per l'occasione è il terzo album di una delle sue più fidate interpreti, una musicista che alla tranquillità ha eretto un autentico monumento: esplicativo già dal titolo delle intenzioni della sua firmataria, “Quiet Signs” è opera che amplifica e perfeziona l'acuto minimalismo espressivo di Jessica Pratt, in un esemplare esercizio di (auto)controllo e pacatezza compositiva, tanto intima amica che aspirazione finale. Se è una ricetta che molti non riuscirebbero a condurre oltre il semplice compitino, nelle mani e nella mente della cantautrice californiana diventa materiale plastico, stracolmo di nuance e variabili, un breve ma eccellente compendio di essenzialità che è solo il lasciapassare per un intero universo di immagini e sensazioni. Il termine “consacrazione” raramente ha avuto maggiore significato.

Pur facendo capo alla stessa natura ossuta delle precedenti due prove, il nuovo progetto splende di elementi inconsueti, conducendo alle estreme conseguenze una formula finora alquanto refrattaria a cambiamenti di sorta. L'overture “Opening Night”, interamente costruita su una leggiadra melodia al pianoforte suonata dal suo compagno (ripresa poi anche nella successiva “As The World Turns”), è la dimostrazione di una palette sonora che ha avvertito la necessità di andare oltre lo schema voce-chitarra, di aprirsi, pur con le stesse premesse realizzative, a un ventaglio strumentale più dinamico. Se l'organico esecutivo già riflette l'avvenuto cambio di guardia, ancor più rilevante è la decisa svolta produttiva approntata per l'occasione: per la prima volta rivoltasi a uno studio di registrazione, Pratt smentisce i propri timori legati al nuovo contesto e consegna la sua raccolta più trascendente, quella che meglio ne traccia il profilo, capace di astrarsi tanto dal tempo quanto dallo spazio.

Filtrando (con la dovuta discrezione) ogni interferenza esterna, la produzione rende ancora più diafane le fulminee narrazioni dell'autrice, tali da assumere una grana ultraterrena, che disperde ogni attinenza a un ambito specifico. Il carattere di Pratt qui emerge insomma al di là delle definizioni, la sua voce, pensosa e allo stesso tempo enigmatica, manovra temi melodici, linee chitarristiche e sfumature umorali con una allure arcana e allo stesso tempo familiare, che racconta l'intimo e l'universale con lo stesso lieve e peculiare dinamismo.
Ormai sempre più slegata dalle serpeggianti (quanto limitanti) forme del nuovo folk statunitense, l'autrice è spirito libero, capace di incanalare nella sua proposta echi di tropicalismo (l'addolorata riflessione “This Time Around”, quasi soffocata nel suo stesso incedere), armonie da pop sessantino (le volute poetiche di “Poly Blue”), piccoli fraseggi di perfezione autoriale, immersa in un silenzio che parla più della musica stessa (la finezza melodica di “Fare Thee Well”, chiosata anche da un affascinante commento di flauto). Forse la sola Ichiko Aoba è stata capace di eguagliare in tempi recenti una simile ricchezza espressiva partendo da presupposti così limitati.

Alla terza prova di un percorso gestito con i propri ritmi, che consente ai brani di maturare come il buon vino, Jessica Pratt ha costruito una delle carriere più singolari della canzone statunitense contemporanea, imponendosi con la forza di un linguaggio peculiare nella sua forbita essenzialità. Se un album come “Quiet Signs” diventasse un punto di riferimento negli anni a venire, non ci sarebbe molto di cui sorprendersi.

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