Beirut – Gallipoli (2019)
Il viaggio è un tema caro a Zachary Francis Condon. Durante l’adolescenza un viaggio in Europa gli ha cambiato la vita, avvicinandolo allo spirito di certe culture che, sebbene distanti – ma non troppo – da quelle sue native, hanno influenzato il suo percorso creativo e la genesi – due lustri e mezzo fa, ormai – della sua creatura Beirut.
Non ha mai smesso di spostarsi e viaggiare, Condon, e l’itinerante Gallipoli ne è un chiaro esempio. Il quinto full lenght dei Beirut, infatti, è stato scritto, arrangiato e prodotto tra New York, Berlino e la provincia di Lecce. Sì, proprio quella provincia di Lecce, per la precisione Guagnano, dove è ubicato il Sudestudio di Stefano Manca, che si è rivelata una grande fonte di ispirazione per la scrittura del disco. L’influenza del Bel Paese si avverte pienamente nelle atmosfere di questo lavoro, tra l’incedere solenne tipico dei rituali religiosi del Sud e i passaggi strumentali dal carattere cinematico.
Condon ritorna ad approcciarsi in maniera etnica alla scrittura – dopo il mezzo passo falso del disco precedente (“No No No”, 2015) – pescando, sì, dalle tradizioni culturali del mondo, ma riadattandole alla propria riconoscibile cifra stilistica. Per questa quinta fatica in studio il frontman di Santa Fe riesuma l’organo farfisa, suona gli ottoni, l’ukulele e richiama in cabina di regia quel Gabe Wax già al lavoro sull’album del 2015, mentre al basso e alla batteria ritroviamo rispettivamente i soliti Paul Collins e Nick Petree.
È affidata a When I Die l’apertura del disco: un brano che presenta una struttura stratificata dove all’ukulele, ai tamburi e al flicorno rarefatto dell’incipit si sovrappongono il farfisa, il basso e la batteria creando atmosfere maestose e melanconiche al tempo stesso. Gallipoli, invece, è un pezzo che richiama, in bellezza, i primi lavori di Condon, scritto di getto dopo aver assistito a una processione per la festa patronale del paese salentino. Ed è qui che si manifesta in maniera poderosa la solennità dell’influenza etnica che risuona nell’avanzata degli ottoni, come in un qualsiasi corteo liturgico del Sud Italia. La tradizione, il racconto e l’importanza del salvaguardare le radici sono racchiusi nelle liriche iniziali: “We tell tale sto be known / Or be spared the sorrow / You’re so fair to behold”.
La delicatezza della linea melodica tracciata dall’ukulele in Varieties Of Exile, l’avanzare compassato delle ritmiche unito agli intermezzi psichedelici dell’organo farfisa ne I Giardini e la lunga suite folk in salsa ambient di Gauze Für Zah chiudono un’ottima prima parte di disco di marca chiaramente Beirut. Eccetto la parentesi strumentale di On Mainau Island e il brano Family Curse, entrambi evocatori di un’estetica cinematografica, la seconda parte del lavoro di Condon perde un po’ di mordente, appiattendosi su formule sonore che denotano una minore messa a fuoco rispetto alle linee musicali della prima.
Ed è così che Landslide, secondo singolo estratto, ha una minor verve melanconica rispetto ai brani d’apertura e che Light In The Atoll, We Never Lived Here e Fin ridimensionano le vette raggiunte in precedenza. In attesa di sentirne la resa live, “Gallipoli” è un lavoro riuscito ma a metà, che si inserisce nella scia di classici della band come “Gulag Orkestar” (2006) e “The Flying Club Cup” (2007) ma resta lì, un gradino sotto, in quel limbo evolutivo che attende la definitiva sferzata creativa di Zach Condon.
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