Sonny Rollins - Saxophone Colossus (1956)

Max Gordon, il leggendario proprietario del Village Vanguard, uno dei jazz club più famosi del mondo, ne ha visti passare di giganti del jazz. E di Sonny Rollins scrisse: “i critici e gli appassionati hanno pareri molto discordi sulla bravura di alcuni musicisti jazz, ma non su Sonny Rollins. Lui è il più grande, il più grande sax tenore della sua generazione”. In effetti siamo di fronte ad una delle parabole artistiche più luminose della storia del jazz, e di uno degli ultimi giganti ancora viventi. 
Theodor Walter Rollins nasce a New York nel 1930, da una famiglia di origini caraibiche. Si appassiona subito al sassofono, e la sua adolescenza si forma con i più grandi maestri, negli anni del Bop. Fa una gavetta, per ogni appassionato un percorso dei sogni, con divinità come Miles Davis, Thelonious Monk, Bud Powell, Max Roach… persino Charlie Parker. Inizia a suonare il sax imitando altri giganti, soprattutto Parker e Dexter Gordon. Con The Bird suona il sax tenore, pur di accompagnarlo, e i suoi primi brani famosi sono Airegin e Oleo, del 1954. Era già sul trampolino di lancio quando si trasferì a Chicago, dove per un periodo di tempo fu irrintracciabile (attività che si ripeterà spesso nella sua vita). Disse che voleva mantenersi umile lavorando seriamente per ritrovare se stesso prima che i vizi lo trascinassero verso una deriva senza ritorno. Si iscrisse persino all’Università. Tornò a New York, e grazie al suo mentore Davis incise per la Prestige uno dei primi, e più grandi, 33 giri del jazz: Dig lo suona con Art Barkley, Tommy Potter, Walter Bishop e Jackie McLean. Davis lo scrittura per una serie di serate al club Bohemia, ma sparisce di nuovo. Leggende si diffondono sul perchè, forse in realtà iniziò a disintossicarsi dalle droghe. Fatto sta che il suo posto viene preso da un altro niente male, John Coltrane. Max Roach però vuole Rollins e i due iniziano il percorso che portano al colosso del sassofono: nel 1955 il magico Plus 4, con Roach, Clifford Brown, Richie Powell e George Marrow, un dream team per l’epoca: in esso la prima gemma, Valse Hot, che è uno dei più grandiosi temi in 3\4 del jazz. Poi l’incontro dei sogni: in un chase, cioè un duello tra grandi solisti, si sfidano lui e John Coltrane: nasce Tenor Madness, una goduria per ogni appassionato, che nel brano omonimo segna la chase più famosa e spettacolare di sempre, segnando l’incontro tra i più grandi sassofonisti di tutti i tempi. Nel 1956, in un momento irripetibile, dà alle stampe Saxophone Colossus. Inciso in una sola, magica sessione il 22 giugno del 1956, è uno dei dischi fondamentali della storia della musica del ‘900. Partecipano alla meraviglia Tommy Flanagan al pianoforte, Doug Watkins al contrabbasso e il fido e geniale Roach alla batteria. 
Il disco si apre con l’irresistibile, e da lì in poi super famosa, St. Thomas, primo calypso di Rollins in onore delle origini caraibiche della sua famiglia, e che durante i live diventerà trampolino di lancio per session infinite (spesso in coppia con Don’t Stop The Carnival). Poi si prosegue con You Don’t Know What Love Is, a firma Don Raye e Gene DePaul, in versione malinconica; Strode Rode è la quintessenza dell’hard bop, con meraviglioso duetto tra il sax di Rollins e il contrabbasso di Doug Watkins. Il brano è un omaggio allo “Strode Hotel” di Chicago, dove il trombettista Freddie Webster morì. L’album si chiude con la meravigliosa Blue Seven, un blues morbido e fantastico, che è considerato il primo esempio di improvvisazione tematica: Rollins inventa un genere, con un uso unico delle cosiddette “pause”, che fa sembrare la sua improvvisazione simile a una forma di composizione istantanea. Da qui partirà in futuro per infinite maratone solistiche, divenendo di fatto uno dei primi che tenta di “uccidere” la parte ritmica. Lo ricordo per altri strani episodi, che sostengono la tesi che certi giganti della musica siano un po’ strani: è considerato il musicista che ha cacciato più colleghi durante le registrazioni; si ritirò dalle scene per mesi, dove studiò in un piccolo studio affacciato al Williamsburg Bridge, il ponte che unisce Brooklyn a Manhattan (e al ritorno dell’esilio darà alle stampe appunto The Bridge, nel 1962). Dopo mesi di ricerche vane, una notte telefona a Max Gordon. Gordon gli chiese: ”Ho una settimana libera a Novembre, vieni a suonare?”. Rollins gli risponde: ”Chi hai questa settimana?. Gordon ha giusto il tempo di dirgli chi suonerà che Rollins gli dà l’ok. Solo che si presenterò, senza preavviso, solo un anno dopo, vestito con un caftano bizzarro, ricordo di un viaggio in India. Che fatica essere un genio colossale…

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