Sun Kil Moon – This Is My Dinner (2018)

di Riccardo Gorone

La creatura di Mark Kozelek ha soppiantato da tempo Kozelek stesso. Una sorta di Golem ha inghiottito una personalità che era considerata tale proprio in relazione alle sue creazioni. Ma adesso, quel creatore è feticcio stesso della creatura, spoglie di un passato luminoso che orw brilla in una teca, come le reliquie sacre.

Ecco, di tutto questo feticismo che si è scatenato da “Benji” in poi, col passare del tempo, rimane forse la boria, lo spirito di esibizionismo che investe tutte quelle che sono state delle grandi figure (un personaggio diventa un mito, poi quel mito, da una parte vive di vita propria e dall’altra, soppianta e giustifica tutto ciò che fa quel personaggio dopo essere diventato mito, in un’inversione spesso pericolosa: l’effetto diventa causa e viceversa). Mi spiego meglio: se c’è stato il WOW generale che si è scatenato con l’uscita di “Benji” (perché quel disco è semplicemente WOW), purtroppo ci sono poi stati una serie di “ah…”, “mh”, “eh” con storture di naso annesse, smorfie dubbiose, sguardi nel vuoto per capire perché Sun Kil Moon non è più lui, o almeno, è troppo lui, e non è più Kozelek (e appunto, per voler smentire questa piccola storia della scomparsa di Kozelek, il Nostro fa uscire un disco quest’anno a nome di Kozelek e col titolo “Mark Kozelek” – escusatio non petita, accusatio manifesta).

Questo interrogativo è venuto nel 2015, con la collaborazione con Jesu in cui gli anni ’90 macchiavano il manto musicale del duo: un’infiltrazione che sapeva di vetusto, ma si parla di uno scenario caro all’ex Red House Painter, quindi, perché no. Poi la conferma della tracotanza del personaggio con “Common As Light And Love Are Red Valleys Of Blood“, un disco “eccessivo” che include 16 brani – tutti lunghi – in cui Sun Kil Moon fa il verso a se stesso, con le sue storie di cui forse oggi si è perso interesse, o forse si è perso interesse in quel suo modo di raccontare, specialmente se gratuitamente, ma comunque sempre convinto che a molti potesse interessare. Questo atteggiamento da Marchese del Grillo che anche nei suoi live mi è capitato di notare, proprio sulla scia dell’uscita di “Benji“. Ecco, ora, a quattro anni di distanza, nonostante le sue produzioni, registrazioni, testi da grafomane al limite della patologia, se ne torna con “This Is My Dinner“, un album che non ha assolutamente un filo conduttore, registrato in qualche giorno tra novembre e dicembre del 2017 con un collettivo di musicisti dalla mano folk piuttosto morbida, famosi per il loro tocco delicato.

Anche qui, le tracce sono della durata di circa 10 minuti l’una, momenti molto lenti di un rock acustico tradizionale in cui il Nostro comincia a parlare di qualcosa di specifico, per poi perdersi: come ad esempio nel pezzo Linda Blair dove Kozelek mostra gratitudine al mondo per poi iniziare a stilare una lista dei pezzi rock che lui adora. Per non parlare della title track in cui si parla di un tour in Norvegia il cui promoter rimane al verde. Oppure nel pezzo Soap For Joyful Hands, in cui parla e sottolinea come lui abbia passione per una sola cosa in vita sua: la musica, come se non fosse fin troppo ovvio, per concludere con l’insopportabile Candles che, confessa lo stesso Kozelek, è un pezzo incompleto.

Se in “Benji“, avevamo assistito a degli affreschi che hanno coinvolto buona parte della civiltà occidentale contemporanea, e che venivano osservati e commentati con gli occhi dell’artista, ora l’artista non fa altro che guardarsi allo specchio, commentandosi e, nel peggiore dei casi, compiacendosi.

Quindi, abbiamo due “notizie”: una buona e una cattiva. Quella buona è che il Nostro è effettivamente un musicista, che vive di musica, per la musica, con la musica, e genuinamente, come altrettanto genuina, e questa è la brutta notizia, è la sua voglia di manifestare, non tanto la sua musica, quanto la sua personalità. Che c’entra? È chiaro che un artista alla fine non possa che parlare di se stesso poiché non può uscire dalla propria pelle, ma quando la spontaneità se ne va e l’autobiografia diventa esibizionismo, non c’è musica che tenga, perché la musica passa in secondo piano, e la musica è la musica, punto.

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