La voce indimenticabile di Billie Holiday, la "Lady" del jazz

L’autobiografia di Billie Holiday, una delle più grandi artiste jazz di sempre, inizia così:
La mamma e il babbo erano ancora due ragazzi quando si sposarono. Lui aveva diciott’anni, lei sedici, io tre.
Un incipit balenante, pungente, inventato. Una delle tante inesattezze profuse nel comunque bellissimo “Lady sings the blues” (“La signora canta il blues”, da noi) in cui il ghostwriter William Dufty raccoglie i ricordi di “Lady Day”.

I genitori non erano così giovani quando nel 1915 nacque Eleanora Fagan—ma pur sempre adolescenti—e non si sarebbero mai sposati. Neanche avrebbero mai vissuto insieme: il padre era un banjoista sempre in giro. La madre, sfrattata dai genitori perché incinta, lasciò spesso la figlia in custodia alla sorellastra mentre andava a lavorare altrove.

La vita di Eleanora fu tribolata fin dalla più tenera età. A undici anni era già comparsa un paio di volte davanti al giudice del tribunale minorile. Non andava mai a scuola. A dieci anni subì uno stupro. Fu data in affidamento a un riformatorio cattolico—che detestò—per i due anni successivi. In seguito, per guadagnare qualcosa, si mise a strofinare i gradini di marmo degli ingressi di Baltimora: per la proprietaria di un certo bordello lo faceva gratis, a patto che quella le facesse ascoltare i dischi di Louis Armstrong e Bessie Smith.

Da Eleanora Fagan a Billie Holiday
Nel 1929 Eleanora raggiunse ad Harlem (NY) la madre, che si prostituiva. Di notte girava per locali come Pod’s and Jerry’s, nel Bronx, cantando con lo pseudonimo Billie Holiday, dal nome di un’attrice e il cognome del padre. Nel 1933 il produttore John Hammond la ascolta per caso. Ha l’impressione di avere di fronte un “genio dell’improvvisazione”: allestisce a questa voce corrusca la sua prima sessione di registrazioni. Con Benny Goodman, alla fine dell’anno.



Inizia l’ascesa di Billie Holiday che proseguirà fino a tutti gli anni ’40. Fondamentali la collaborazione con il pianista Teddy Wilson fra il 1935 e il 1938, insieme al quale, in grande libertà, trasformò canzonette da classifica in classici del jazz. La fine degli anni ’30, con l’etichetta Columbia, sull’onda del classico “Strange fruit”. E i primi anni ’40, che consolidarono definitivamente la sua fama.

Billie Holiday a 20 anni, con Ben Webster e Johnny Russell – Harlem, 1935. Foto di Timme Rosenkrantz

Il musicista con il quale si trovava più in sintonia era il grande tenorsassofonista Lester Young, del quale amava tutto, la dizione musicale, la personalità. Lui le affibbiò il soprannome “Lady Day”, mentre lei coniò il suo, “Prez” (President).



“Strange Fruit”


Alla fine degli anni ’30 Billie Holiday aveva iniziato a esibirsi al Café Society, nel Greenwich Village. Praticamente l’unico night progressista della città. Come ha scritto il critico David Margolick, che alla canzone ha dedicato addirittura un libro, il Café Society era “l’unico posto dove Strange fruit avrebbe potuto essere cantata e apprezzata”.

Holiday, nell’autobiografia, afferma di averne ideato la musica, ma non è così. Sia questa che il testo furono scritti da un bianco, l’ebreo-russo Abel Meeropol, insegnante comunista. Questi, un giorno del 1939, la portò al proprietario del Café Society che chiese a Billie Holiday di cantarla. Così nacque la leggenda della canzone che è l’inizio ideale del movimento per i diritti civili degli afroamericani.



Gli “strani frutti” che pendono dai Southern trees bagnandone le foglie e le radici di sangue, sono i corpi degli uomini linciati. Billie Holiday fece completamente sua la canzone, uno spartiacque per la carriera della cantante. Da allora sarà famosissima.

La strana storia di Billie Holiday in Italia

In quegli stessi anni inizia la dipendenza di Billie Holiday dall’eroina. Fra i ’40 e i ’50 sarà arrestata più di una volta e le verrà anche ritirata la “cabaret card“. Nel frattempo Holiday, apertamente bisessuale, si sposa due volte, con esiti infelici.



Quando ormai la sua voce e la sua salute sono da diversi anni compromessi dall’abuso di droga e alcol, Billie Holiday arriverà in Italia per la sua unica, rocambolesca tournée nel paese. Nel 1958, a Milano, Cinema Smeraldo. L’impresario l’ha inserita in una serata di avanspettacolo, un contesto circense. Come ha ricordato Arrigo Polillo, dopo qualche canzone Billie Holiday viene azzittita dal pubblico inferocito, pregata dall’organizzatore di uscire per non più rientrare, infine protestata. Jazzisti e appassionati milanesi, in preda al senso di umiliazione, “ripararano” organizzando qualche giorno dopo un recital di Billie Holiday in un teatro di marionette per bambini, da un centinaio di posti, il Teatro Gerolamo.

L’ultimo anno

Era il novembre del 1958. Pochi mesi dopo uscirà l’ultimo album, oggi conosciuto come Last Recording.



In quello stesso luglio 1959, Billie Holiday morirà nel letto d’ospedale di una stanza piantonata da un poliziotto, poiché poco prima è stata ancora una volta arrestata. Nell’ultimo album, registrato con Ray Ellis, come il precedente album di successo Lady in satin, la voce è beffarda, tristissima, carta vetrata. Spaventa, eppure ci colpisce come un’estrema conquista artistica.

L’autobiografia di Billie Holiday, La signora canta il blues, è pubblicata da Feltrinelli. Dal libro è stato tratto un film con Diana Ross. Nel 1964 il poeta Frank O’Hara dedicò a Billie Holiday un bellissimo “epitaffio in poesia”, la lirica “The day Lady died”. In una bella puntata di Wikiradio la voce di Danilo Di Termini racconta la vita di “Lady Day”.

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