Luluc – Sculptor (2018)
I segnali che indicavano i Luluc come uno dei nomi da tener d’occhio nel panorama contemporaneo erano molteplici: non solo l’interesse, nonché la co-produzione del secondo album del duo, da parte di Aaron Dessner dei National, ma anche il successivo contratto con la Sub Pop, senza dimenticare la chiamata alle armi di Joe Boyd per il tributo a Nick Drake: “Way To Blue”.
Attivi sin dal 2008, anno in cui rilasciarono il loro primo Lp intitolato “Dear Hamlyn”, dedicato alla memoria del papà di Zoë Randell, i Luluc sono un duo indie-folk australiano formato da quest'ultima e Steve Hassett. Il loro nome è salito agli onori della cronaca grazie a “Passerby”, un album che ha trasformato il toccante e scheletrico folk dell’esordio in un rigoglioso chamber-pop dalle affascinanti nuance country alla Cowboy Junkies, il tutto graziato da un delicato e profondo timbro vocale alla Karen Carpenter.
Registrato in uno studiolo di New York che Zoë e Steve hanno costruito con le loro mani, “Sculptor” manifesta sia un’ulteriore evoluzione della ricerca del duo che un ritorno, almeno in parte, alle atmosfere intime e dimesse di “Dear Hamlyn”.
La prima prende forma nell’utilizzo frequente di tastiere vintage, che generano intorno alla voce di Zoë una nebbiolina insistente, il secondo nella delicatezza sacrale con la quale tutti gli strumenti vengono toccati.
I quattro anni passati dal precedente capitolo non sono trascorsi invano: Zoë Randell ha infatti trovato il perfetto equilibrio tra le suggestioni assorbite durante l’adolescenza (i genitori ascoltavano Ray Charles e Paul Simon), gli anni passati in Inghilterra, dopo aver lasciato all’età di quindici anni la natia Melbourne, e il ritorno a casa suggellato dalla compagnia discreta e affidabile di Steve Hassett.
Graziato dalla presenza di ospiti importanti - Jim White, J Mascis e l’amico Aaron Dessner - “Sculptor” è non solo l’album più intenso dei Luluc, ma anche il più personale e originale. Un progetto ricco di interessanti richiami alla miglior tradizione country e folk: le storie sono ricche di dettagli eppur fluide, parimenti la musica non conosce ostacoli armonici o strumentali, lasciando scorrere una serie di particolari apparentemente ingenui e al contrario pregni di significato.
L’uso degli ottoni in “Heist”, ad esempio, non è un semplice vezzo o un devoto richiamo ai National, quanto piuttosto l’unico modo per sottolineare lo sconforto che fa seguito alla difficoltà di costruire relazioni umane solide. Non è dunque un caso che sia affidato a J Mascis il tocco di chitarra lievemente eversivo che si agita in sottofondo in “Me And Jasper”, avendo il compito di suggellare quella voglia di fuga dalla noia descritta nel testo. Ed è funzionale al compiacimento lirico che caratterizza l’etereo country-blues di “Genius” la presenza di Jim White, perfetto coadiutore di quelle atmosfere low-key che Steve Hassett sparge qua e là con immacolato candore e discrezione.
Nella produzione di Hassett che va ricercata la chiave di lettura della complessa e variegata tessitura delle canzoni, a volte quasi flebili e delicate come il Nick Drake di “Five Leaves Left” (la crepuscolare “Moon Girl”), altrove algide e intense come nell’emozionante crescendo di “Kids”, che a molti ricorderà i Low di “Ones And Sixes”.
La sinergia tra testi e musica è quasi sempre impeccabile, le atmosfere lievi e più solari (Simon & Garfunkel meet Beach Boys) di “Spring” salutano un tentativo di rinascita spirituale, mentre la contaminazione dell’elettronica, che quasi disturba la delicata ballata “Controversy”, è frutto dei dubbi e delle perplessità che agitano gran parte di “Sculptor”.
La natura più profonda della musica dei Luluc si palesa in maggior misura nelle pagine più oscure e malinconiche (la title track), nei loop inquietanti che agitano la breve “Needn’t Be” o nel pregevole condensato di poesia di “Cambridge”, dove il disagio e l’insoddisfazione sono descritti con immagini vivide che catturano l’animo più profondo.
Opera in perfetto equilibrio tra cuore e attenzione ai particolari, il terzo disco dei Luluc meriterebbe molta più diffusione di quanta probabilmente ne otterrà, ma conquisterà certamente un posto d’onore nelle classifiche e nel cuore di tutti gli appassionati di folk minimale e dolente.
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