di Silvano Bottaro Prefazione. Disco considerato come uno dei massimi capolavori non solo della musica italiana, ma della musica tutta. Attribuire questo disco a De Andrè è un po’ limitativo visto che l’apporto musicale di Pagani è non solo determinante ma in egual misura direi anche “sonoramente marcante”. In questi ventidueanni dall’uscita del disco, ammetto di averlo ascoltato fino quasi alla nausea (che non mi è mai venuta), assaporandolo in ogni sua minima sfumatura, nei suoni e nei testi, cercando di cogliere il significato più profondo che i due musicisti hanno voluto esprimere. Proprio per questo l'articolo è più lungo e dettagliato.
Il disco Un disco italiano ma non in italiano, anzi in genovese antico. L'album infatti nasce dall'incontro tra De Andrè e Mario Pagani, uno dei maggiori musicisti italiani. L'idea è stata quella di concepire un album "mediterraneo" nell'origine, andando a pescare in giro per il bacino del nostro mare gli strumenti che le…
Fu un fulmine a ciel sereno l'esordio nel 1994 di questo figlio d'arte, che aveva ereditato dal padre Tim una vocalità quasi angelica e spinta fino a quattro ottave di estensione. Fu un fulmine a ciel sereno perché nessuno pensava che in un disco solo si potesse sintetizzare lo spirito di un decennio di fuoco (in ambito musicale, ovviamente) come gli anni Novanta, con il lirismo di Cohen e Van Morrison, la grazia di Edith Piaf e Nina Simone e le tessiture classiche di Benjamin Britten. Il risultato di questa miscela, al quale va aggiunta la chitarra di Jeff, uno dei chitarristi più grandi e sottovalutati degli ultimi vent'anni, è un disco che sembra quasi privo di collocazione spaziotemporale, etereo e corposo allo stesso tempo, sospeso fra raffiche del torrido vento di Seattle, ma elevato a livelli celesti dal volo della voce di Buckley. Il resto lo fanno canzoni come Grace, Lover You Should've Come Over o Last Goodbye, oltre all'ormai inflazionatissima cover di …
di Carmine Vitale
Continua inesorabile il processo evolutivo di Jonathan Wilson dopo le prime due ottime prove Gentle Spirit (2011) e Fanfare (2013), entrambe segnate dalla giusta mescola di tradizione e sperimentazione. Il musicista originario di Forest City è riuscito infatti a condensare nella sua proposta sonora il country e il folk, il rock desertico ed echi vagamente progressive con risultati sorprendenti. A cinque anni di distanza da quest’ultimo, Wilson mostra di non aver smarrito quella voglia di sperimentalismo e sana retromania, scoprendo ancora una volta una gamma variegata di suoni che parte da una produzione britannica 80s ma che finisce per esplodere in una pasta sonora che, traccia dopo traccia, diventa sempre più stratificata.
Bypassando l’artwork tra The Sims, Second Life ed estetica vaporwave fuori tempo massimo (tra i peggiori di questo 2018), Rare Birds è straripante di magniloquenza. Un disco che sembra aver interiorizzato le esperienze in veste di producer del N…
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