Shannon Wright - Division (2017)

di Nino Ciglio

Quindici anni di carriera, alcuni momenti di rilievo (Yann Tiersen & Shannon Wright) e una personalità sempre costante, uguale a se stessa, decisa a non scendere a compromessi con niente e nessuno. Questa, in breve, la carriera della musicista/compositrice di Atlanta, che, dopo quattro anni di assenza, progetti paralleli e un figlio, ritorna oggi con Division. L’innegabile bontà della proposta della Wright si svela sotto ogni sfumatura della sua lunga carriera artistica; la sua è musica fatta di stratificazioni, anzi, per meglio dire, di de-stratificazioni: ognuno degli album precedenti (da Flight Safety a Let In The Light) utilizza mezzi scomodi e non convenzionali che, quasi sempre, fanno rima con il rock and roll. A guardare bene, però, il suo rock and roll è molto diverso da quello di una PJ Harvey o di Sharon Van Etten, alla quale è stata spesso associata. Prendiamo Division, per esempio: l’album è stato concepito insieme alla pianista contemporanea Katia Labeque. Ed ecco la prima differenza rispetto al progetto noise chitarristico di In Film Sound (2013). Il lavoro espone un lato emotivo e molto più sofferente (e sofferto), dove le chitarre distorte e disordinate, le percussioni battute e indiavolate, incontrano l’animo meditativo di un pianoforte o di una viola. Soft Noise, in questo senso, ne è forse l’esempio più toccante: una cavalcata melodica fino ad una chiusura altamente rumoristica che, un po’, ricorda i Muse di Origin Of Symmetry.
E pensare che Wright aveva quasi deciso di smettere di suonare, al punto da confidarlo a Katia Labeque, artista che si è poi rivelata non solo una sua grande fan, ma soprattutto una importante fonte di ispirazione per questo lavoro. Division, quindi, concepito in otto intensissime tracce, è stato scritto in parte a Roma, di fronte al pianoforte della Labeque, ed in parte a Parigi. È decisamente l’album più complesso dell’artista, sebbene l’inizio, nella title track, sembri suggerire una certa continuità con gli album precedenti, ovvero, voce sofferente e biascicata accompagnata da un ritmo incalzante e deciso che, a parte i già citati Muse migliori, richiama alla mente alcune operazioni proto-grunge in chiave Melvins. Le cose si fanno più complicate (e affascinanti) con The Thirst, che sembra essere un connubio fra una colonna sonora di un film di Gaspar Noé e le cose più interessanti dei mai abbastanza citati Dirty Three. Le successive Wayward e Accidental inseriscono elementi di ritmica elettronica, synth e mellotron che non stonano nel clima di profondità generale. I beat sono elementari, ma immersi nell’atmosfera rivelatrice e orchestrale (nel senso più minimale del termine) del disco, riescono comunque nell’obbiettivo di de-costruire il genere, per toccare la materia.
Piccola nota di merito per la già citata Soft Noise, che fra vaghi richiami ai Radiohead (nel sistema melodico e nel crescendo finale) rappresenta il brano più rappresentativo; e per la speculare Lighthouse (Drag Us In), che biascica un mantra di piano e voce fino a una coda nella quale si scatena un piano soffocante e una batteria riverberata, fra Kyuss e Low. Questi ultimi brani, assieme a Division e al breve sipario elettronico, rendono il nuovo lavoro della Wright un oggetto affascinante, chiaramente difficile da digerire, ma assolutamente da ascoltare, per gli amanti del genere.

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