Emel Mathlouthi – Ensen (2017)

di Vassilios Karagiannis

"Umano": essenziale e allo stesso tempo immediato, il titolo (opportunamente traslitterato in caratteri latini dall'arabo) che adorna la seconda fatica di Emel Mathlouthi, straordinaria esule tunisina di stanza a New York, è un'indicazione perfetta di quello che è il tema principale non soltanto del disco, ma più in generale della musica di un'artista, seriamente interessata a comprendere e raccontare cos'è che ci rende essere umani, e cosa invece ci allontana da quel sentimento di umanità in realtà comune a tutto il mondo. Non è soltanto questione di militanza: se è vero che sin da prima della pubblicazione di "Kelmti Horra" (traducibile con "la mia parola è libera") i testi delle sue canzoni erano contraddistinti da tematiche scomode e da un viscerale sentimento di protesta (fatto che ne ha impedito la diffusione ufficiale in madrepatria), vi è comunque un senso di compartecipazione alle vicende esposte capace di trascendere la pur fondamentale dimensione politica, per elevarsi a grido universale, a chiamata che trascende questo o quel particolare contesto. In questo senso, "Ensen" è il perfezionamento, lirico quanto strettamente musicale, della splendida formula introdotta cinque anni fa ai tempi del debutto, riuscito tentativo di sposare ai suoni e alle tradizioni della sua terra un approccio da songwriter folk "occidentale" con una produzione dai fascinosi ricami elettronici. Con slanci testuali ormai pressoché privi di riferimenti a situazioni specifiche (e anche per questo facilmente adattabili all'occorrenza) e con una visione artistica maturata sotto ogni aspetto, la musica di Mathlouthi strappa già al secondo disco la prova della carriera.

In un certo senso, quanto detto sopra per descrivere brevemente i tratti dell'album d'esordio è applicabile in larga misura anche per il nuovo lavoro, con la notevole differenza che ogni aspetto viene portato alle estreme conseguenze, e perfezionato con cura maniacale, per un insieme che reca in sé le stimmate dello stato dell'arte. Se è dai tempi di Natacha Atlas (per non parlare di esperimenti precedenti) che si tenta, in maniera più o meno riuscita, di coniugare in un unico abbraccio le esperienze elettroniche europee con il bacino secolare delle tradizioni del mondo arabofono e delle popolazioni beduine, quanto sottende alla creazione di "Ensen" parla di una prospettiva ancora più ampia, di un superamento della retorica dell'incontro tra culture e di un'universalizzazione di suono ed estetica, la provenienza specifica dei quali assume un ruolo importante, ma mai determinante. Acquisisce quindi un significato più profondo il fatto che i brani del lavoro siano stati registrati in sette paesi diversi e abbiano visto la collaborazione di produttori e musicisti provenienti dalle più disparate parti del globo: tra di essi, oltre al fido Amin Mehtani, con Emel sin dall'inizio della sua avventura, appare anche Valgeir Sigurðsson a dare man forte con idee distanti da quello che è il preconcetto di un disco di arabic-pop contemporaneo, e anche per questo funzionali alla trasversalità di scenari e immaginario voluta per l'album da Mathlouthi, ormai perfettamente consapevole non soltanto di quanto è necessario alla sua arte, ma anche dei mezzi per ottenerlo.

Se quindi la strumentazione non difetta quanto a ricchezza e versatilità (accanto al programming, al pianoforte e agli effetti in studio, di primaria importanza è l'impiego di un ricco apparato di strumenti della tradizione quali il gumbri, sorta di basso a tre corde, un flauto chiamato zukra e percussioni dal suono molto profondo, definite bendir), è il modo in cui però si sposa all'elemento vocale che lascia scaturire la magia insita in "Ensen". Mai così in controllo del proprio mezzo, con un pathos e una capacità di lettura che fortunatamente si spingono oltre il mero virtuosismo, Emel ruba la scena con interpretazioni che vanno dall'ottimo allo straordinario, in un campionario espressivo che ha dell'impressionante e che svetta sulla maggior parte degli attuali eroi ed eroine del grande canto.
Eccola, moderna songwriter a spasso per il mondo, inerpicarsi in una ballata che sa di vento del deserto e dei ghiacci dell'estremo Nord, una "Instant" dalle forme industrial-folk che fornisce già indicazioni precise su quale sia il grado di ricombinazione desiderato dall'artista. Se poi l'obiettivo è quello di costruire il motivo pop assassino, il singolo che funga da lasciapassare, la successiva "Ensen Dhaif" chiarisce come per Mathlouthi anche questa sia una sfida tutto sommato semplice, anche a fronte di un testo tutt'altro che edificante. Amaro e sentito affresco sulla miseria dell'uomo di fronte ai soprusi del potere, in qualunque forma esso si manifesti, il brano opta per un grintoso e aggressivo pattern ritmico, in cui la cantante sale e scende in un vortice di intensità e semitoni, cangiando di ottave con l'agilità di una soprano provetta, prima che la danza ceda il passo a un sipario di maggiore riflessività, in cui la voce, quasi spezzata dal dolore, assurge ad assoluta protagonista.

Nonostante il fascino disarmante dell'elemento vocale, non è che composizione e musica rimangano lì a mero sfondo, o a elemento di esaltazione di un'ugola comunque rara nel suo genere; le composizioni anzi tradiscono una ricercatezza e una personalità che anche nei momenti prossimi al folk della madrepatria non risultano veramente mai ascrivibili esclusivamente alla tradizione. Mentre "Lost" gioca con costrutti più tipici del canto arabo, in ascese repentine e cadute precipitose che si ritrovano però nel bel mezzo di manipolazioni elettroniche, kick di marca dancehall (specialmente nell'avvio) e nastri trattati in reverse, in una sorta di attualizzazione della folktronica anni 00, "Khayef" combina i tratti misterici della melodia in un tripudio di percussioni filtrate, violini muta-forma e beat hip-hop, spezzando gli apparenti sentori "devozionali" suggeriti dall'interpretazione.
E non è tutto: riservando i posti migliori per la metà e per la conclusione dell'opera, Emel dà sfogo a tutti i suoi istinti compositivi dapprima traducendo in musica il senso di ebbrezza in un mantra ossessivo in cui tamburi e corde si danno manforte in un concitato numero desert-drone-rock ("Thamlaton", in cui la maestosità della ripetizione viene amplificata dalle notevoli variazioni vocali messe in atto), successivamente appianando ogni stimolo ritmico nel disarmante incanto di "Fi Kolli Yawmen", sublime liturgia terrena ambient-drone in cui i synth, dotati della spartana bellezza di una Alicia Merz, riscoprono una purezza primigenia, fluttuando liberi alla ricerca del paradiso.

Sofferenza, estasi, liberazione e molto ancora: la condizione umana dipinta da Emel Mathlouthi si presenta in tutte le sue possibili sfaccettature, viene glorificata nella sua complessità, senza alcuno sconto nei confronti dell'ascoltatore. Con una prospettiva forte, partecipata, diversa anche solo per il fatto di provenire da una delle poche voci femminili di successo del mondo arabofono, la musica racchiusa in "Ensen" rappresenta senza mezzi termini uno dei momenti cardine del 2017. Raramente la vita, con tutte le sue difficoltà e ingiustizie, è stata fatta risuonare in maniera così commossa.

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