Rhiannon Giddens – Freedom Highway (2017)
A due anni di distanza dall’esordio solista, “Tomorrow Is My Turn”, Rhiannon Giddens ritorna con un album scritto ed elaborato durante la lunga tournée americana.
Dopo aver dato voce all’universo femminile, attraverso canzoni scritte o interpretate da donne, l’ex-componente dei Carolina Chocolate Drops mette insieme un progetto più personale, con ben nove canzoni originali e tre classici folk-blues.
“Freedom Highway” è un album politico. Il messaggio è forte, appassionato, non a caso l’autrice ha rilasciato una dichiarazione d’intenti ben precisa: "Sono una figlia del Sud, della classe operaia bianca, della classe operaia nera, dei democratici, dei repubblicani, dei gay, degli etero, e posso dirvi una cosa, noi siamo molto più simili di quanto sembriamo diversi. Non possiamo lasciare che l'odio ci divida, non possiamo lasciare che l'ignoranza ci sminuisca, non possiamo lasciare che coloro la cui avidità riempie ogni loro ora di veglia, conquistino il nostro paese. Non possono prendersi l’America, a meno che noi non gliela lasciamo prendere".
A questa intensa premessa fa seguito un progetto musicalmente avventuroso. Il recupero delle radici e della tradizione musicale americana non è didascalico, Rhiannon Giddens volge l’attenzione alla tradizione orale, a quei temi costanti della musica afroamericana che dopo secoli di lotta restano immutati e sempre pronti a rinnovarsi nel loro bieco orrore. “Puoi prendere il mio corpo, puoi prendere la mia anima, puoi avere anche le mie ossa, ma non avrai mai la mia anima”, canta Rhiannon nelle note dell’iniziale “At The Purchaser’s Option”, rimarcando il mai sconfitto ruolo subalterno della donna nella società antica e moderna. La musica è incisiva, potente, un folk-gospel con banjo, mandolino e violoncello, magistralmente scandito dalla voce dell’autrice.
Ogni canzone possiede in verità una doppia chiave di lettura: da una parte la Giddens cattura l’ascoltatore sottolineando con calibrato pathos il dolore e il tormento di chi subisce violenze e soprusi; dall’altro lato la costruzione dei brani tende a una rappresentazione quasi teatrale, dove i personaggi appartengono indistintamente al passato e al presente, ma soprattutto ad ogni razza o religione.
La femminilità e il rapporto madre-figlio diventa il canovaccio sul quale tratteggiare questa sofferenza universale. Non a caso un altro dei vertici dell’album è la splendida “Julie”, strutturata su un dialogo tra una schiava e la sua padrona: mentre quest’ultima la esorta a prendersi cura delle ricchezze di famiglia, la serva le ricorda con amarezza che quell’oro è il frutto anche della vendita del suo amato figlio. La tensione diventa palpabile non solo nella voce della Giddens, ma anche nello scarno e intenso accompagnamento musicale a base di fiddle e banjo.
Senza la raffinata e a volte artificiosa produzione di T-Bone Burnett, che tanto aveva caratterizzato “Tomorrow Is My Turn”, la musica scorre più fluida, il suono è prevalentemente acustico e volutamente spigoloso.
Tra la rivisitazione per solo chitarra e voce di un classico di Mississippi John Hurt “The Angels Laid Him Away” e il moderno e intenso spiritual di “We Could Fly”, non sembra esserci una dimensione temporale: entrambi suonano come classici di un'unica generazione, quella generazione che brama la libertà senza chiamarla mai per nome.
Nella sua escursione storica l’autrice non solo tiene conto delle matrici blues, jazz e folk, ma ad esse allinea funk e rap, moderne incarnazioni della lotta sociale di chi vede violati i propri diritti civili. Ciò avviene soprattutto nel robusto funky-soul “Better Get It Right The First Time”, dove una vivace sezione fiati apre le porte a un inarrestabile rap.
Portata al successo da Joan Baez, “Birmingham Sunday” è una splendida ballata folk di Richard Farina: piano organo e batteria prendono il sopravvento, modificando solo per un prezioso attimo il tono più roots e crepuscolare dell’album.
Nell’acid-blues di “Come Love Come” entrano in gioco i vecchi compagni dei Carolina Chocolate Drops; jazz e dixieland invece tratteggiano la sbarazzina “The Love We Almost Had” in cui la tromba con la sordina di Alphonso Horne è in giocosa evidenza, quest’ultima protagonista anche della leggiadra “Hey Bébé”.
Sono sempre le donne le vere protagoniste di “Freedom Highway”. Nella straziante “Baby Boy” lo sono anche musicalmente, con il banjo di Rhiannon Giddens che dialoga con il violoncello di Leyla McCalla e la voce di Lalenja Harrington, per uno dei brani più aspri e intensi dell’album.
Introdotta dallo strumentale per banjo e ossa “Following The North Star”, giunge infine il classico delle Staple Singers che offre il titolo all’album. La chitarra e la voce di Bhi Bhiman rafforzano l’intenso valore politico militante del brano, scritto per la marcia del 1965 in Alabama a sostegno dei diritti civili, e chiosa con classe un album destinato a lasciare un segno indelebile in questo ancor giovane anno.
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