Devendra Banhart – Ape In Pink Marble (2016)
Musica per l’atrio di un hotel di Tokyo degli anni ’80»: è così che Devendra Banhart sintetizza le atmosfere del suo ultimo album, Ape in Pink Marble. Del resto il cantautore americano è famoso per le sue dichiarazioni stravaganti e surreali, quanto per i testi delle canzoni, fatte di doppi sensi e giochi di parole, e le musiche, raffinate architetture di pop minimale, quasi bozzetti intenzionalmente incompiuti che raccontano storie popolate da strani personaggi. Il brano Fancy Man, per esempio, prodotto a Los Angeles con gli storici collaboratori Noah Georgeson e Josiah Stein (insieme nella foto a fianco), racconta di un eccentrico nato tra posate d’argento che finalizza ogni iniziativa filantropica per appagare il suo ego («per quanto cerchi di dimostrare di essere il migliore, tutti i lussi di cui si circonda non bastano a farlo sentire soddisfatto di sé», spiega l’autore), in Fig in Leather, altro nuovo motivo ispirato alla disco anni ’70, il protagonista è un uomo di mezza età che «per fare colpo si veste in pelle come Fonzie e sfoggia tutt’un apparato di accessori hi-tech, frigo compreso, per dimostrare quanto è supertecnologico».
Il cuore folk di Devendra Ape in Pink Marble è un album più leggero, in cui il divertissement è sottolineato da chitarre acustiche, vecchi synth, marimba, arpe giapponesi e mellotron. Ma non c’è «nulla di autobiografico», spiega Devendra quando lo incontriamo a Milano, dove torna spesso. Modi gentili e occhi curiosi, è dotato di un’immediata empatia con cui ha fatto breccia nei cuori di Natalie Portman, sua ex fidanzata, e dell’artista serba Ana Kras. In città è grande amico dello stilista Marcelo Burlon con cui sfreccia spesso in scooter per le vie del centro. «È grazie a lui che mi sono innamorato di Milano. Ci conosciamo da una decina di anni, da quando sono venuto a fare il mio primo show e ora siamo come fratelli. Con lui, qualsiasi posto è speciale: mi hanno impressionato la Fondazione Prada e il Bar Luce, ma anche le rovine romane nel cortile della Statale, è bello sentire il senso della storia in mezzo a tanta modernità». Il fascino particolare di Banhart è dovuto anche alle sue origini e alle sue esperienze: porta il nome di una divinità indiana, scelto dalla madre su suggerimento di un mistico indù, ha avuto un’esistenza da nomade tra Houston, Caracas (dove ancora oggi ricorda che «uscire di casa dopo le 8 di sera significava rischiare la vita»), San Francisco e New York. Ha portato barbe da santone indiano e mise psichedeliche, completi edoardiani, jeans a zampa e monili nel periodo di Smokey Rolls Down Thunder Canyon, l’album del 2007. Continua a leggere...
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