The Besnard Lakes - A Coliseum Complex Museum (2016)
Un caseggiato solitario illuminato da un cono di luce come in un quadro di Edward Hopper; un cavallo nero avvolto dalle fiamme; le rive di un lago divorate da alti roghi; una visione diafana scuote in modo irreale il panorama circostante; una luna bidimensionale crea un ampio gorgo nelle placide acque di un lago. Messe in fila, le copertine degli album dei Besnard Lakes compongono una piccola galleria dell'inquietudine, del paranormale e di qualsiasi invisibile “oltre” in grado di scavalcare la sfera della percezione. Un culto di tutto quanto è inspiegabile che, fin dalla prima ora, si riverbera in liriche pregne di simbolismo e di spiritualità, e che si applica a livello sonoro in traiettorie sospese, spesso epiche e orchestrate, talvolta spettrali, ma non necessariamente oscure come ci si potrebbe aspettare.
Anzi, con il nuovo “A Coliseum Complex Museum” si assiste al deciso tentativo di solcare una rinnovata serenità. Certo, ritroviamo ancora la sfera del sovrannaturale, le forze occulte e le figure mitologiche, una natura che sa essere magnetica e selvaggia, quella fascinazione per l'inesplicabile che sottende la musica della formazione canadese, o meglio ne ispira il nucleo centrale, i coniugi Jace Lasek e Olga Goreas - la cui “creatura” si è nel tempo allargata fino a tramutarsi, di recente, in un quintetto di cui fanno attualmente parte Kevin Laing, Robbie MacArthur e la “new entry” Sheenah Ko alle tastiere. Ma, questa volta, in una versione meno magniloquente e introversa, benché - ancora una volta - enigmatica e surreale.
Sfuggire a una spiegazione semplice, negarsi a una visione chiara e in qualche modo definitiva è, del resto, l'elemento caratterizzante del sound del combo di Montreal. Tant'è che si fatica, e non poco, a forgiarne una definizione sintetica e allo stesso tempo esaustiva. A ogni lavoro sfornato dalla fucina canadese la prospettiva cambia in modo più o meno percettibile, accarezza i generi senza vincolarsi ad alcuno. Le melodie si materializzano e sfumano come entità impalpabili tra riff chitarristici e contrappunti sintetici, nonostante le suite oniriche e maestose di “Until In Excess, Imperceptible Ufo” siano qui sostituite da episodi caratterizzati da un minutaggio più contenuto, impalcature ritmiche maggiormente irrobustite e un accentuato sentimento di riappacificazione.
La sfida di “A Coliseum Complex Museum” sta tutta lì, nel guadagnare in pragmatismo senza snaturarsi, ma anche nella riproposizione di quel tocco così elegante e leggero da apparire, a sua volta, quasi soprannaturale. Che poi sia sottintesa un'ulteriore dose di orecchiabilità sullo sfondo delle classiche atmosfere sospese e delle strofe ossessivamente ripetute, ritrovandosi di fronte a una sorta di versione “matura” delle idee abbozzate nell'ormai lontano “...Are The Dark Horse” (2007), lo si scopre soltanto con il ripetersi degli ascolti.
Lo si intuisce nell'apertura melodica di “The Bray Road Beast”, laddove lo psych-rock dei Black Angels incontra il sentimento pop degli Elo, e nel capitolo più propriamente pop del lotto, una “Towers Sent Her Sheets Of Sound” che torna a bazzicare i territori immaginari della West Coast anni 70. Ma non solo. “The Golden Lion”, già incontrata nell'omonimo Ep che ha preceduto di qualche settimana l'album, invita con il suo passo indolente a godersi le esplosioni orchestrali che illuminano uno dei brani più riusciti dell'intera produzione della band canadese. Ritmo marziale e atmosfere ipnotiche caratterizzano “The Plain Moon”, un'affascinante gemma psichedelica che avrebbero potuto scrivere i Tame Impala prima maniera. Nulla è come sembra, tant'è che l'intro shoegaze di “Pressure Of Our Plans” si traduce in un pezzo che mescola space-rock e dream-pop, assoli floydiani e perfetti incastri di voci maschili e femminili. Al termine della scaletta, le metriche slowcore di “Nightingale” cedono il passo alle stratificazioni alt-rock di “Tungsten 4: The Refugee”.
“A Coliseum Complex Museum” è allora, forse, il meno indecifrabile tra gli album scritti dai Besnard Lakes, ma il sound della formazione di Montreal non ha perso nulla del suo fascino chiaroscurale, arricchendosi semmai di una scrittura che, senza rinunciare alla complessità delle sue impalcature, risulta più consapevole e accessibile. O questo, forse, è ciò che vogliono farci credere. (Mia valutazione: Buono)
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