Trey Anastasio - Paper Wheels (2015)

di Gianfranco Callieri

Il linguaggio di un musicista sono i suoi ascolti, anche quando un gruppo, o un solista, intende superarli o lasciarseli alle spalle. È proprio questa semplice verità, ancora oggi invisa a qualche purista dell'illuminazione improvvisa, il segreto della grandezza dei Phish, creatura nata presso l'Università del Vermont, nel 1983, allorché il chitarrista Trey Anastasio e i suoi tre complici trovarono divertente l'idea di mettere sul pentagramma una conoscenza enciclopedica della storia del rock e dei suoi derivati, ogni volta riletti in un'apoteosi di virtuosismi, improvvisazioni, divagazioni, rimaneggiamenti e, non ultime, straordinarie facilità e freschezza di scrittura. Quando il loro gioco ha iniziato a farsi meno elastico e spiritoso, quando cioè il sentimento per gli ascolti di gioventù ha lasciato il passo alla preoccupazione per la geometria dei propri brani, diventando fin troppo razionale, pleonastico e calcolato per appassionare ancora, i Phish sono diventati un gruppo come tanti altri, bravi (anzi, bravissimi) ma talmente devoti a un "metodo" da rasentare, nonostante il calore dei sempre irresistibili concerti, il manierismo concettuale. Simili considerazioni, tranne che per il primo Surrender To The Air del 1996 (esperimento da direttore d'orchestra in chiave jazz, invero godibilissimo, chissà perché disprezzato da tutti) e per il morbido classicrock dell'omonimo Trey Anastasio (2002), si possono ahimè estendere per intero alla carriera solista del loro principale compositore, anche lui di continuo trascinante nelle esibizioni dal vivo (provate a recuperare l'antologico Plasma [2003) sebbene eccessivamente logico e ragionieristico nei lavori in studio, sempre più simili a opere concepite con l'intento di impadronirsi duna cascata di luoghi comuni - gli strumentali classicheggianti di Seis De Mayo (2004), il rock formato AOR di Shine (2005), il pop'n'roll zappiano di Bar 17 (2006), le melodie di seconda mano dell'ultimo, avvilente Traveler (2012) - per decontestualizzarli e, con la tecnica, rimasticarli in ossequio al piacere di spiazzare. Rispetto a questa prassi non scritta, il nuovo e undicesimo Paper Wheels costituisce però una gradita forma di trasgressione, finalmente spensierata come un tempo (non sono pochi gli episodi in grado di ricordare le atmosfere frizzanti di Billy Breathes, realizzato dai Phish nel 1996) e prodiga di soluzioni coinvolgenti. Si tratta in sintesi di un recupero delle sonorità esuberanti e festose di certo pop degli anni '70, dalle melodie rootsy dei e Doobie Brothers al soft-rock degli Orleans (senza dimenticare qualche traccia dei colori latini del Santana più accessibile nelle fughe chitarristiche), eseguito in un clima di gioiosa rilassatezza e mai appesantito, malgrado le variopinte sovrapposizioni vocali, i cambi di tempo e le acrobazie varie, da atteggiamenti in contrapposizione con le premesse di leggerezza del progetto. Il dialogo appagante tra immediatezza della scrittura e complessità degli arrangiamenti non potrebbe essere più evidente nella lunga ln Rounds, col suo ritornello funky (e un groove prelevato dalle migliori ri sezioni ritmiche di New Orleans) ogni volta scontornato da nuovi esempi di audacia strumentale, li o nel countreggiare incantevole i dell'iniziale Sometime After Sunset, in pratica un pezzo dei Firefall, impeccabile e ricercato nelle sembianze e tuttavia ricco d'anima, struggimenti e orizzonti. The Song è invece uno showcase delle abilità delle coriste Jennifer Hartswick e Natalie Cressman (entrambe in forze, assieme al sassofonista James Casey, al reparto fiati), mentre il funk a rotta di collo della tellurica Bounce si concentra sulle percussioni spettacolari del brasiliano Cyro Baptista, doppiato dalla batteria altrettanto travolgente di Russ Lawton, e Speak To Me si avventura in territori fusion con una partitura di chitarra ispirata al Larry Carlton dei Crusaders. Le cose migliori saltano fuori nelle malinconiche cadenze soul di Liquid Time, ballata costruita su di un perfetto incastro tra fiati e sei corde (dove affiorano re citazioni dei primi Dire Straits), e nei pressi della conclusiva e Cartwheels, intreccio di rock e n gospel vagamente somigliante alla Before The Deluge di Jackson Browne, con il profumo di come avrebbero potuto suonare gli America se costui ne avesse nti guidato i movimenti. Gli elementi necessari, insomma, a rendere umano e appassionante un disco basato sull'arte della composizione centrifuga, dove iti in primo piano non si collocano i brani ma le circostanze intorno alle quali Anastasio li ha costruiti, assumendo come unica regola la smentita delle regole stesse.
All'elenco delle prelibatezze Ni vanno poi tassativamente aggiunte la soffice psichedelia di una Never (con la Hartswick nset, nei panni di vocalist quasi esclusiva) caracollante verso la fluidajam finale, la sbalorditiva tecnica jazz di una Lever Boy da fare invidia a Pat Metheny, le tastiere sottotraccia (garantisce lo strepitoso Ray Paczkowski) della lunare Invisible Knife e il country-rock onirico della romantica Flying Machines, un piccolo inchino all'epopea dei Grateful Dead, e in particolare al suono morbido e vellutato di album come Shakedown Street (1978), da parte di chi, quest'anno, si è sobbarcato il compito di sostituire Jerry Garcia nei loro concerti d'addio (e d'altronde l'ombra di Garcia e del suo stile multiforme si allungano su tutto l'album come quella, appunto, di un «morto riconoscente» e soddisfatto). I simboli in copertina, confezionati dal grafico Matt Taylor, rimandano al «quadrato di Playfair», una tecnica di cifratura simmetrica - la prima polialfabetica - sviluppata verso la metà dell'Ottocento dall'inglese Charles Wheatstone (la conoscete se vi siete appassionati guardando Il Mistero Delle Pagine Perdute [National Treasure: Book Of Secrets; Jon Turteltaub, 2007) e utilizzata dalle forze militari britanniche durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale: anche questa scelta, a un primo sguardo ascrivibile a quel mondo un po' surreale di stranezze da enigmistica e passatempi ludici, ricchissimo di dettagli e talvolta privo di reali necessità narrative, al quale il nostro non ha mai fatto mistero di ispirarsi, si colloca infine in una logica dove ogni elemento costituisce un'esplicita partecipazione all'atto creativo, inseparabile dalla sua dimensione di giocosità e ingegno. Valgono, di fronte alla creatività spontanea sfoggiata da Trey Anastasio in Paper Wheels, le considerazioni a suo tempo estese da Serge Daney sul cinema del regista Jacques Doillon, la cui macchina da presa, secondo il critico, si posizionava ogni volta «dove fa capolino la freschezza». La chitarra di Anastasio si comporta allo stesso modo, e davvero non serve altro per fare di Paper Wheels la testimonianza imperdibile di un metodo dove memoria e immaginazione, ricreandosi di continuo, raggiungono scenari sempre nuovi. (Mia valutazione: Distinto)

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