Joanna Newsom - Divers (2015)

di Dariush Aazam Rahimian

Quanta parte della nostra umana esperienza è immune alla sovranità del tempo?
Il modo più semplice per approcciare una risposta è scandagliare la propria esistenza a ritroso, rivivere ogni istante considerandolo un punto senza linee di appartenenza, ignorando qualunque postulato. Un processo simile è al tempo stesso il più rischioso, può smascherare dolori senza una luce di scuse, senza un barlume di spiegazione.

Esiste poi la via complessa, ed è proprio questa che intraprende Joanna Newsom nel suo quarto album, a soli trentadue anni.
Non esiste un punto di vista specifico, il narratore è onnisciente e saggio. Per trovare una risposta, fa riferimento alle infinite lezioni della storia (anche ad un ascolto distratto, ritorna spesso l’incipit “the war between…”), i cui protagonisti sono modificabili in direzione e favore di qualunque significato si preferisca.
La sua arpa ha sempre dato l’impressione di poter plasmare i miti, di creare un senso che sia tutto fuorché comune; riposa sopra all’idea di una collocazione temporale, si libra sul corso della storia senza esserne necessariamente una conseguenza.
Un’artista (o arpista) comune si sarebbe gettata tra le braccia di qualche etichetta major a metà degli anni duemila, al momento di massima popolarità del folk: Joanna, invece, ha tenuto fede a Drag City, per assicurarsi di poter mantenere la sua insolita identità, ossia di pubblicare un album di cinque canzoni per quasi sessanta minuti totali, seguito da un triplo disco, seguito da “Divers” a cinque anni di distanza.
Anche la collocazione cronologica dei suoi quattro lavori è solo un semplice dato, ad indicare l’evoluzione, senza necessario miglioramento, di un’artista da dieci anni stabile in un luogo compositivo tanto complesso quanto elevato.

“Gli aneddoti non possono spiegare di che cosa sia capace il tempo”, è la morale della prima traccia. La risposta, come è frequente nei cinquantuno densissimi minuti del disco, appare nel pezzo conclusivo. “Time moves both ways”, dice.
La stessa traccia (parallelamente a Waltz Of The 1st Lightborne) replica al quesito posto dalla title-track: perché il dolore della nascita appare più leggero del dolore della morte?
La realizzazione di una nuova vita non solo giustifica, ma fa dimenticare completamente la sofferenza di un decesso, e di tutti i suoi sinonimi meno delicati e più sinceri.
I cori strillanti di dieci anni addietro (Peach Plum Pear dal primo album, esempio lampante) sono sacrificati in favore di puliti overdubs, così come sono estinte le isole voce-arpa di Ys. Rispetto a “Have One On Me”, “Divers” presenta un’ancora maggiore varietà di stili; immersioni profonde e multiple, appunto. Si contano più di dieci differenti tipi di tastiera, dal piano semplice al Mellotron, dal clavicembalo al Marxofono. La batteria soggiunge spesso inattesa, a incorniciare opere strabordanti, barocche: soluzioni ardite sono sempre preferite alla nota facile, le proporzioni giuste nonostante tutto.

Goose Eggs e A Pin-Light Bent sembrerebbero, nei loro esordi, estratte dai primi due LP; a più paziente analisi si coglie la maggior ricchezza strutturale, i profumi di chi di fiori, nel frattempo, ne ha ricevuti a centinaia.
Per sua stessa ammissione, Joanna non adotta un tema specifico: l’album sembra piuttosto circumnavigare un arcipelago -ennesima, obbligatoria allegoria nautica- o intravedere una rete di idee, a formare un vero e proprio contesto. Ogni canzone passa il testimone alla successiva, e non si può sapere se si uniscono a celebrare la stessa vittoria, a lamentare la stessa tragedia o semplicemente a porre la stessa domanda.

Il titolo dell’ultimo pezzo, appunto, è Time, As A Symptom.
La tesi: il tempo è sintomo dell’amore, e non viceversa.
La massa attuale di un cuore conta più della memoria che contiene, e il suo è più vasto che mai.
Per quanto ne so, Joanna Newsom potrebbe essere nata nel Seicento, potrebbe aver imparato a cantare e suonare e pensare così, potrebbe essere salita su una nave grande quanto quattro oceani, potrebbe essere qui per puro caso.
The Things I Say termina con un epilogo al contrario, la voce che torna indietro in un inaspettato accorgimento elettronico.

Il tempo rimane un problema, ma lei, in realtà, ne sembra immune. (Mia valutazione: Buono)

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E T I C H E T T E

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