Any Other – Silently. Quietly. Going Away (2015)

di Gianluca Porta

Adele Nigro è uscita dal gruppo. Ha deciso di lasciare quel folk che geograficamente sta tra la Svezia delle First Aid Kit e le foreste del Nord America, per fare qualcosa di nuovo. E forse di più vero. Perché, per quanto mi piacessero le Lovecats e il loro EP, non riuscivano a essere niente di più che una bella melodia e un’ottima armonizzazione. Il suo nuovo progetto, la sua nuova band, Any Other, riapre tutte le possibilità.
Musicalmente prende da tutto l’indie rock, un po’ lo-fi che si sparge a macchia d’olio tra le città e le periferie americane, attingendo a piene mani da Waxatachee, Pavement, Beluah e tutte le band di quel filone. La forma è semplicissima, minimale: chitarra e voce, un po’ di basso per arricchire e batteria per dare struttura. Insomma, rock anni ’90 nudo e crudo, come in Italia non si sentiva da un po’. L’album si muove completamente nel solco di queste influenze, rendendolo coeso ma mai noioso, perché abilmente si sviluppa tra stili e suoni leggermente diversi.

Silently. Quietly. Going Away si apre con il dialogo interiore di Adele, in cui traspare la voglia di un “qualcosa” in grado di dare speranza. “Something” segue la forma più classica del rock anni ’90 che lei ha scelto di abbracciare. Il testo è fluido, come un flusso di coscienza, libero di muoversi tra le consuetudini di una vita fatta di formalità e un urlo mai spezzato, che spiazza per l’onestà e l’urgenza del bisogno.
Il brano successivo, “Blue Moon” si gioca fra l’esplosivo e il calmo, portato avanti da un basso che diventa sempre più melodico. La musica e le parole suggeriscono che c’è qualcosa di più forte del cadere, del sentimento di affossarsi come una luna triste, qualcosa che riempia la nostalgia. Che cosa sia, però non viene mai detto esplicitamente. Però si può intuire.
“Gladly Farewell” esprime di nuovo quell’urgenza di crescere e di essere all’altezza delle circostanze, riconoscendo una mancanza, quella di non potercela fare da sola. La bellezza della canzone sta nei suoi piani e forti, usati quando servono, in grado di sottolineare le parole e creare un costante climax ascendente.
Subito dopo parte “His Era”, dove l’arrangiamento si arricchisce con alcune note di synth. Tutta la canzone crea un’atmosfera di ricordi. Quello che colpisce è come la memoria della “sua era” si alterna, nell’ultima strofa, alle memorie della “mia era”. Perché era quando lui c’era ed era con me, ma anche quanto io (cioè io che canto) ero davvero me stessa, perché mi sentivo davvero viva. Ma cosa rende questa esperienza eterna? Si intuisce l’urgenza di una risposta, che però ora come ora non arriva.
“365 days” si regge sugli arpeggi e sull’atmosfera degli American Football, e colpisce per la semplice bellezza che traspare. Un cristallino gioiello che con una semplicità disarmante racconta dei problemi che si possono incontrare nella vita di tutti i giorni e di come questi, rimanendo senza risposta, creino dei vuoti.

La canzone successiva, “Roger Roger, Commander”, parla di quello che succede quando si è circondati da questi vuoti, quando anche l’adolescenza e la spensieratezza finiscono: si rimane con una disillusione che contagia tutto. L’urlo pian piano esce, rinasce il bisogno di una speranza, tutta riposta nella fuga, nel volere andarsene il più velocemente possibile.
In “5.47 PM” tutto ritorna più intimo, incentrato sul suo tentativo solitario di salvarsi, di sconfiggere la noia. Sembra non riuscirci fino a quando non si lascia sorprendere e sopraffare dalla realtà, quando cioè smette di essere orgogliosamente solitaria e inizia a percepire quello che le sta intorno.
“Teenage” si apre con solo chitarra e voce, creando già un forte empatia tra ascoltatore e autore, per poi incorporare basso e batteria nel corso della canzone. L’inizio così raccolto è dato dal tema della canzone, cioè quello che succede quando non si riesce a stare dietro alle aspettative di tutti, e facendoli ci si dimentica di essere se stessi. La voce di Adele sa quando essere commossa e quando essere ruggente, quando fermarsi e quando esplodere.
Il brano successivo, “Sonnet #4”, amplifica la dimensione intimistica della canzone precedente, portandola in un rapporto d’amore che non funziona. Nella mancata risposta a un bisogno da parte dell’altro, in un costante crescendo, arricchito da bellissime chitarre elettriche, esplode nell’urlo più fragoroso di tutto il disco, e il più necessario. Tutto si ferma, perché così deve essere, e poi con calma, e quasi un timore reverenziale davanti a un bisogno così fragoroso, tutto riparte verso una semplice coda.
L’ultima canzone, “To The Kino Again”, riassume quello che il disco fino ad ora ha comunicato, cristallizzando tutto nella mente dell’ascoltatore, come se finalmente una risposta fosse arrivata.
“Silently. Quietly. Going Away” è un disco che non inventa niente di nuovo a livello sonoro, che non vive del guizzo creativo di un super genio musicale, ma non per questo è da buttare via.
È bello perché esprime con semplicità quello che è comune a tutti, e nel farlo usa un genere che è in grado di amplificare lo struggimento e la nostalgia, che sa ben dosare piani e forti, che vive di silenzi e note immense. Insomma, è un disco che vale la pene ascoltare, fosse solo per avere la conferma che il tuo bisogno lo sente anche qualcun altro. (Mia valutazione: Buono)

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