San Fermin - Jackrabbit (2015)
Sembrava quasi il frutto di un’accurata ricerca scientifica, l’esordio di un paio di anni fa di Ellis Ludwig-Leone: una miscela dalla composizione studiata nei minimi dettagli ed eseguita mettendo insieme gli ingredienti in modo maniacale, quasi un prodotto di ingegneria genetica della musica popolare contemporanea, il suo compimento evolutivo.
Musica popolare e colta, indipendente e mainstream, tutta riunita da un deus ex machina giovane e talentuoso, capace di trascinare e di immaginare un brano da Beyoncé in “Sonsick”, forse il migliore di quell’anno, quanto di farsi cantautore e interprete folk in “Methuselah”. In mezzo tanto i National, Sufjan Stevens, i Dirty Projectors quanto Philip Glass.
Forse “era” fin troppo, “San Fermin”: ed è a questo che Ellis ha voluto mettere mano in questo secondo “Jackrabbit”, cercando un’identità sonora, non più mascherando il caos d’idee con un labile concept, come nell’esordio. Così, come nell’artwork, tutto il disco è unito dal tono di un musical Burton-iano: protagonista un coniglio in frac.
Rimane l’alternanza inevitabile nel tono delle canzoni corrispondente all’avvicendarsi di voce maschile e femminile (qui affidata a Charlene Kaye, diversamente dall’esordio), con il baritono di Allen Tate utilizzato per qualche residuo brano alla National, quelli ultimi, più epici (“Woman In Red”) e il timbro squillante della Kaye che sostiene il piglio r’n’b delle composizioni di Ludwig-Leone.
Raramente però si realizza un vero connubio tra arrangiamenti pirotecnici e scrittura di base, e a volte ne escono esibizioni oltremodo confuse (“Parasites”, le bizzarre eruzioni di fiati in “The Woods”), in altri casi brani irrisolti (“Astronauts”, “Two Scenes”).
Anche i brani più definiti sotto il profilo melodico (la title track; “Philosopher” ha una gran seconda parte, però), su tutti il singolo di lancio soul-pop, “Emily”, hanno tutta l’eleganza ma non il tiro dei brani dell’esordio.
Il talento è sempre lo stesso, intendiamoci: basta l’elegante nonchalance con cui l’irresistibile scivolamento armonico di “Billy Bibbit” viene piazzato in chiusura del disco: nonostante il suo fascino, “Jackrabbit” rimane comunque uno dei tanti “difficili secondi dischi”. (Mia valutazione: Buono)
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