Field Report – Marigolden (2014)
Saremo sempre grati a Adam Duritz (Counting Crows) per aver segnalato a Buscadero, tra i suoi preferiti ascolti, quello dei Field Report. Comunemente si dice che per fare il primo disco serve una vita e per fare il secondo due anni e così è stato, tanto è il tempo che intercorre tra l’omonimo debutto della band di Milwaukee, Field Report (2012), e questo Marigolden. Il leader indiscusso del combo del Wisconsin, Chris Porterfield (il nome della band è l’anagramma del suo cognome), dopo aver attraversato un periodo in cui pareva non potesse trarre ispirazione se non devastandosi con l’alcool, riesce a trovare la forza di restare sobrio e passo dopo passo, si rende conto di avere molte frecce per il suo arco e che l’ispirazione per la scrittura non arriva dalla pericolosa molecola bensì dalla propria competenza musicale e dall’anima. Dopo aver scritto chitarra, voce e poco più tutti i pezzi prende armi bagagli e musicisti e si stiva, tra una bufera di neve e l’altra, nelle colline dell’Ontario per aggiungere ed arricchire i parchi arrangiamenti iniziali.
Ne esce un signor album, grazie anche alla visionarietà del produttore Robbie Lackritzis (Feist), all’incredibile polistrumentista Shane Leonard e alla scrittura drammatica di Christopher, (con testi belli e profondi su temi della via ritrovata verso la casa, come luogo deputato a riprendersi in mano una vita), che complessivamente lascia il segno. Marigolden è un album difficile da inquadrare perché quando pensi di averne rapidamente compreso il drive, un istante dopo devi ricrederti, e dal folk gelido fuso con country sottile e sofisticato ti si parano davanti delicate varianti pop, a quel punto si pensa di averlo inchiavardato alla sua natura e invece ecco spuntare inquietudini elettroniche che lo traghettano verso sonorità più moderne e meno scontate. Insomma una specie di cubo di Rubrik musicale che come tenti di metterlo a posto ti si scombina; questa è anche la sua qualità primaria, un continuo divenire che però non è sufficiente a fargli perdere omogeneità e ciò grazie al collante, ovvero la voce di Christopher, che mette tutto a modello. Una voce che “gratta leggermente” e viene impreziosita da quel suo affascinante metallico e robusto vibrato.
Nonostante questo buon viatico va detto che Marigolden non è un disco che prende l’ascoltatore al primo giro, bisogna dedicargli un po’ di tempo ma anche questo è un pregio, perché Porterfield (che ricordiamo aver militato con Justin Vernon nei DeYarmond Edison) non cerca facili ganci melodici, pur facendo uso incessante di melodia, prerogativa che lo avrebbe assimilato (nel senso negativo del parallelo) ai Mumford & Sons del caso. Le canzoni crescono ad ogni ascolto e affascinano, appunto, per le linee melodiche e gli arrangiamenti solidi e sapienti, divisi tra l’uso leggero e azzeccato di synth, drum machine ed elettronica combinato con pedal steel, violino, banjo e percussioni, un connubio che genera un pastiche colorato e memorabile carico di nostalgia. Impossibile fare graduatorie tra le dieci canzoni ognuna delle quali si fa apprezzare per propria riconoscibilità anche se qualche preferenza si afferma nell’ascolto delle più immediate, come l’iniziale Decision Day che ha un piglio che ricorda sonorità elettro acustiche che paiono uscire da Into The Wild ma è solo l’inizio perché già da Home (Leave the Lights On) un pop alto rimodella l’ascolto, come del resto nella magnifica Wings, ma Pale Raider diventa evocativa e ruba l’anima con i suoi cori (Tamara Linden al raddoppio vocale), il drive di percussioni e synth, su voce in leggero falsetto di Pale Raider, è perfetto. La pianistica e drammatica Ambrosia dà il colpo di grazia (sempre il tema dell’alcool) per un album che è per tutti gli amanti di quella musica in grado di coniugare tecnica, anima e suggestione. Disco bellissimo e molto consigliato, da ascoltare e riascoltare. (voto mio 3,5/5)
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