Thom Yorke - Tomorrow’s Modern Boxes (2014)

di Stefano Solventi

La seconda cosa che mi ha colpito del nuovo disco di Thom Yorke sono i primi trenta secondi, quella specie di loop monocorde pseudo-industrial: cosa mi ricordava? Ci ho pensato un bel po’ prima di rendermi conto che sembrava il riflesso lacero e consunto di un’altra intro, quella di Discotheque, canzone di apertura di Pop, album che ha segnato un turning point per gli U2 e – a detta di molti, tra cui il sottoscritto – l’ultimo nel quale abbiano dimostrato un po’ di vena creativa. Tutto lascia pensare che si tratti di un link attivato solo dalla complicata rete di connessioni mnemoniche del sottoscritto, o al massimo una coincidenza, però dal momento che viviamo in un’epoca in cui tutto è collegato, stratificato, connesso appunto, credo sia inevitabile lasciare accesa una fiammella di sospetto.
Venendo invece alla prima cosa che mi ha colpito di Tomorrow’s Modern Boxes, è ovviamente la sua comparsa repentina, bruciante, inattesa ma soprattutto inopportuna, considerata soprattutto la contemporaneità del lavoro solista di Phil Selway. Certo, dal momento in cui quest’ultimo è un album distribuito con criteri standard, la competizione tra le due situazioni dovrebbe essere ridotta. Però dal punto di vista mediatico il buon Selway ne esce letteralmente sepolto, non ci sono discussioni. E’ strano. Verrebbe quasi da pensare che Yorke lo abbia fatto apposta, non contro l’amico batterista ovviamente, ma per offrire alla platea una risposta clamorosa alla altrettanto clamorosa operazione U2-Apple. E’ un po’ come se avesse voluto dire, “ecco una modalità di distribuzione realmente contemporanea, fruibile da chiunque lo voglia, che permette all’artista di essere libero e all’utente di fare proprio a 6 dollari (meno di 5 euro) e in pochi istanti un disco vero e proprio (c’è anche la versione in vinile bianco), non un gadget scintillante di gloria passata”.
Sia chiaro, a parte una nuova versione di torrent, stavolta non c’è nulla di rivoluzionario nella proposta. Il metodo è quello già estremamente familiare utilizzato dalle app: assaggi gratis (una canzone e un video) e poi se ti piace fai l’upgrade alla versione a pagamento, il tutto con comodi click dal tuo cellulare/tablet. Nulla di nuovo appunto, però a pensarci bene è questo l’aspetto più importante della faccenda: quel futuro immaginato nel 2007 con In Rainbows si è a grandi linee realizzato, con gli aggiustamenti del caso. Era utopica la modalità “up to you”, ma la rotta per svincolarsi da un circuito produttivo e distributivo novecentesco era giusta. Detto questo, possiamo passare alla musica.
E’ il secondo lavoro solista firmato da Yorke, ma rispetto a The Eraser sembra concepito e realizzato in una dimensione più raccolta, intima, faccia a faccia con le proprie ossessioni e la voglia di abbozzare tentativi, rendendo evidente la pelle del lavoro (ferma restando la presenza di Nigel Godrich in cabina di regia). Questi otto pezzi fanno pensare ad altrettanti sguardi gettati nel laboratorio di musicisti/ingegneri che stanno cercando, mettendo a punto, smerigliando bordi e mescolando dimensioni. In un certo senso, parliamo anche del significato che può avere un album oggi secondo Yorke: un’istantanea sulla fase creativa. Nelle qui presenti scatole moderne troviamo polaroid (versione Instagram se preferite) di un ex-ragazzo del post punk folgorato prima dall’idm di casa Warp e poi dal trittico di producer formato da James Holden, Four Tet e Burial (Guess Again! di cui abbiamo già sentito il motivo nella app Polyfauna), dagli ultimi sviluppi ambient (Pink Section) alla 2 step (The Mother Lorde), dalla techno colta su una nuvola tra Detroit e Berlino (There Is No Ice), che comunque intuisce l’importanza di far affiorare il residuo capitale umano, una specie di vena soul esausta che pure ha la forza di imprimere una inafferrabile densità a pezzi come Nose Grows Some (una latineria cibernetica Aphex Twin satura di languore elusivo), Truth Ray (bradicardica e vetrosa) e la opening A Brain In A Bottle (che sembra un po’ l’ultimo Jeff Buckley ipnotizzato da Flying Lotus).
Ci sono come due piani che scivolano uno sotto l’altro – individuabili sommariamente nella dualità macchine vs. piano/voce – scambiandosi posizione e incrociandosi senza mai trovare una sintesi reale, e questa tensione è l’energia che tiene vive le canzoni ma che rischia allo stesso tempo di metterle all’angolo, troppo preoccupate a risolversi per offrire motivi di reale trasporto, abbandono, eccitazione, rapimento. Se c’è un problema nel Thom Yorke di oggi, a mio avviso già presente nei Radiohead di The King Of Limbs e semplicemente ignorato dagli Atoms For Peace, è che non è ancora chiara una direzione. Forse la causa è proprio questo eccessivo delegare e mutuare calligrafie altrui, un processo di ricerca erratico che non sembra (ancora) prevedere approdi. Il rischio – già un po’ attuale – è fare la figura dello zio attempato ad un party di universitari. Per adesso è ancora apprezzabile, ma non so quanto possa durare. Mi auguro che succeda qualcosa prima che inizi a sembrare imbarazzante. (3,5/5 voto mio)

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