Marianne Faithfull - Give My Love To London (2014)

di Ariel Bertoldo

Fumo di sigaretta e dietro uno sfondo rosso, luciferino: la nuvola nasce dalle labbra, le incornicia il viso. Lei è Marianne Faithfull, ritratta in copertina. È il suo nuovo album e non potrebbe essere altrimenti. Già, perché la cantautrice inglese dopo tutti questi anni di carriera (quasi cinquanta, anche se inframezzati da lunghi, turbolenti periodi di inattività) incarna ancora, e forse oggi più di allora, la figura dell’Araba Fenice, risorta dal ceneri, di ritorno dall’Inferno. Un nome, un destino il suo: conturbante poetessa decadente, cresciuta nei damascati agi di una famiglia aristocratica, precipitata bionda e giovanissima prima nel giro più rock e fashion della Swingin’ London (sponda Mick Jagger) poi nei vicoli bui e squallidi della tossicodipendenza, angoli remoti e arrugginiti della capitale britannica, case occupate, alberghi di quart’ordine. Ha sofferto, ha patito, da giovane è quasi morta d’amori sbagliati, di solitudine, di malinconia: poi la forza d’animo è riuscita a sollevarla, facendole ritrovare la retta via. Alcune cicatrici esistenziali, purtroppo, ti restano tatuate addosso più di ogni altra ruga d’espressione, eppure tutto sta nel saperle accudire, traendone ispirazione, creando arte a partire dalla sublimazione di così tante esistenze condensate in una sola, tutte vissute al massimo dell’intensità.

Da oltre un decennio ormai, Marianne ha intuito la strada realizzativa che più le si confà: dischi incisi con la preziosa collaborazione di amici musicisti conosciuti da una vita o che, viceversa, sono cresciuti ascoltando i suoi album e immaginando, un giorno, di poterla incontrare. Per questo giro di giostra (“Give My Love To London” è il ventesimo lavoro di studio) la Faithfull ha voluto con sé una band composta da Adrian Utley alla chitarra (già nei Portishead), Jim Sclavounus e Warren Ellis (dei Bad Seeds di Nick Cave, rispettivamente batteria e violino), il cantautore Ed Harcourt alle tastiere e la produzione artistica di Rob Ellis, anche lui coinvolto negli arrangiamenti. Per la scrittura delle musiche alla corte di Marianne sono accorsi Steve Earle, Roger Waters, Anna Calvi e il già citato Nick Cave. Il risultato è un intrigante viaggio lungo 11 canzoni dai colori e dagli umori differenti, testi originali, una manciata di riuscite cover e spleen esistenziale variamente spruzzato per le stanze, profumo di fiori secchi e tabacco invecchiato. La somma dei singoli episodi, va detto, funziona a meraviglia e ben pochi restano gli angoli deboli o fuori fuoco.

Il brano che dà il titolo al disco è opera di Steve Earle e ci da quasi l’illusione di essere al cospetto di una festa country-folk reminiscente dei Waterboys di “Fisherman’s Blues”: violini, chitarre acustiche, percussioni concitate, atmosfera briosa a nascondere in realtà un sarcastico bozzetto delle rivolte inglesi dell’estate del 2011. Segue “Sparrows Will Sing”, regalo di Roger Waters, una cavalcata marziale e impetuosa dall’intro velvettiano, un profluvio di effetti e chitarre e tastiere cui fa seguito “True Lies”, terzinato epico grondante di aperture ariose e improvvise diminuzioni d’intensità.
La quiete ritrovata fa capolino soltanto in “Love More or Less”, ballata folk acustica arpeggiata dall’andamento etereo. Il primo capolavoro porta però la firma di Nick Cave: “Late Victorian Holocaust” è una funerea elegia e potrebbe essere figlia del suo “No More Shall We Part”, tra pianoforte e tappeto inquietante di synth. L’impressione è quella di restare sospesi nel tempo, finché il violino di Warren Ellis arriva a straziarti l’anima e condurti oltre. Sorprendentemente poco incisivo il contributo della bravissima Anna Calvi: “Falling Back” si lascia ricordare per un ritornello strumentale dal sapore un po’ kitsch.

Stesso dicasi per “The Price Of Love Marianne”, quasi un calco stilistico del rock stonesiano dei tempi che furono. Di ben altra pasta gli ultimi due brani: prima un’azzeccata ripresa di “Going Home” di Leonard Cohen, tratta dal suo penultimo album, “Old Ideas”. Piano e voce, un’interpretazione che non fa davvero rimpiangere l’originale, abrasiva e ironica al punto giusto.
Infine, il proverbiale coniglio estratto dal cilindro, un colpo di teatro che vale ampiamente il prezzo del biglietto. Marianne si cala infatti nei panni di una moderna Marlene Dietrich e ci regala una versione da brividi del classico “I Get Along Without You Very Well” di Hoagy Carmichael. E il sipario cala in uno scenario da Berlino fine anni Trenta, filmato idealmente da David Lynch e pregno di tutta l’arte melodrammatica di cui la Nostra è capace. Pianoforte, archi, corde pizzicate in un crescendo di rara suggestione. (4/5 voto mio)

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