Leonard Cohen - Popular Problems (2014)
Si può restare dei fuoriclasse a 80 anni? Leonard Cohen dimostra di sì con questo nuovo album, perla preziosa per questi anni nuovi di sound meno duri. La voce diventa più roca, ricalcando quasi quella del nighthawk per eccellezza (Tom Waits): cavernosa e profonda ci guida verso i nove pezzi di un album di cui sentivamo proprio la mancanza. Perché sì, ci sono momenti in cui l’esigenza di lasciarci trascinare dalla melodia piuttosto che dal glitch li vogliamo vivere anche oggi. Il viaggio rauco attraversa scenari luridi, i peggiori bar delle città o dei vecchi paesi, la solitudine interiore, la poesia come pezzettini di vetro che fendono la pelle, il rumore di una vecchia ballata. Che Cohen riesca in questa titanica impresa ancora a 80 anni (l’impresa della creatività) è un piccolo miracolo che vogliamo conservare. E omaggiare.
Il giovane Cohen che cantava ”siamo brutti ma abbiamo la musica” sapeva verso che strada stava andando: tu ragazzino belloccio che monti sul palco senza un briciolo di musica dentro le vene forse non resisterai al tempo che passa, io che la musica ce l’ho dentro resterò. Un disco come Popular Problems in effetti può concepirlo soltanto qualcuno che la musica la sente dentro, come un’esigenza da esplorare e buttar fuori. Almost Like the Blues è un pezzo tanto soffice quanto acre, un mantra dal testo che continua a reggere l’urto del tempo (parliamo pur sempre di Cohen), che si districa tra le atmosfere del Nick Cave più oscuro. Immenso, colpisce immediatamente e arriva dove vuole arrivare, senza nessuno sforzo. Tanto che nemmeno i cori di contro-canto che disseminano l’intero disco riescono ad essere fastidiosi, e si incastrano bene alla voce stanca e quasi disinteressata di Leonard.
Chiaro che a ottant’anni non hai più la forza di cantare ”So long Marianne” con tutte le strascicanti destinazioni diverse di una voce cangiante, ma l’effetto che viene fuori dalle frasi secche e dure di pezzi come Nevermind è altrettanto deciso, anche quando si trasforma in una sorta di reading accompagnato da canti femminili. Il disco si annuncia con Slow ed è chiara l’intenzione di Cohen sin da subito: è un disco lento, che celebra la lentezza (It’s not because i’m old / And it’s not what dying does / I’ve always liked it slow / slow is in my blood). Tutti i colpi di velocità (come nella scrosciante waitsiana Did I ever love you) sono affidati all’accompagnamento, al cambio di ritmo dettato dalle voci che accompagnano un ancora magnifico Leonard Cohen. La musica è quella minimale di un cantautore che ha già fatto la storia ma non si arrende a tenersi ai suoi margini, arrivato da un Canada prolifico nella sua vena cantautoriale (da Neil Young a Joni Mitchell).
You got me singing the hallelujah song: con queste parole sibilline si chiude l’album di Leonard Cohen, come se ci fosse una volontà precisa di raccontare un’autobiografia autorizzata attraverso un disco. Un lungo racconto che dal primo album del 1967 (Songs of Leonard Cohen) attraversa successivi capolavori come Songs of Love and Hate, Various Positions e I’m Your Man. Se a 80 anni non è più pensabile l’idea di intarsiare magicamente le parole per farle uscire dalla bocca a ritmo forsennato e deciso seguendo allo stesso tempo la melodia della chitarra come ai tempi di Suzanne, certo non possiamo accusare Cohen di esser stato troppo sintetico. Ci ha raccontato un’altra storia, e ancora una volta ha vinto lui. (Mia valutazione: Distinto)
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