Bob Mould - Here We Go Crazy (2025)
di Nicola Gervasini
Bob Mould è un intoccabile. Vale a dire uno di quei nomi su cui si è sempre tutti d’accordo, che nessuno oserebbe mai contestare, al riparo pure dalle manie di insensato revisionismo critico verso i mostri sacri che ha imperato in questi anni di discussioni musicali nei social. Non si ebbe il coraggio di metterlo in discussione neppure quando nel 2002, con Modulate, azzardò un abbraccio all’elettronica, non poi così memorabile col senno di poi, ma è indubbio che il suo nome è sempre in cima quando si deve portare un esempio di integrità artistica e qualità costantemente alta. Ma da quindici anni a questa parte serpeggia tra le righe dei fans la sensazione che si sia un po’ arenato su un modello di canzone (che resta poi lo stesso degli anni con gli Hüsker Dü), senza più porsi il problema di nuovi azzardi.
Ho fatto una prova empirica, e ho ascoltato per la prima volta questo nuovo Here We Go Crazy subito dopo aver riascoltato Silver Age del 2012, considerando che in mezzo ci sono altri 4 album che hanno mantenuto bene o male lo stesso registro di suoni, ed effettivamente è stato difficile capire dove finisse il primo e dove iniziasse il secondo, se non per un leggero calo di ritmo e ferocia sonora evidenziato dal nuovo capitolo. Si potrebbe quindi davvero ipotizzare che Mould faccia ormai da tempo lo stesso disco, sensazione amplificata dal fatto che stiamo parlando di album sostanzialmente registrati dalla stessa band e sempre con la stessa “ratio” produttiva, e cioè con la sua chitarra iper-amplificata in primissimo piano, e la sezione ritmica di Jason Narducy (basso) e Jon Wurster (batteria), loro due ormai da anni, che lo segue con la medesima veemenza ma sempre un po’ in sottofondo nel mix finale.
E sebbene qui brani come la title-track o Breathing Room si assestino su un ritmo più riflessivo e autoriale e meno da garage-rock, e in Lost Or Stolen riaffiori persino una chitarra acustica (ma nulla a che vedere con il suono elettro-acustico che aveva reso il suo esordio solista Workbook uno di suoi album più amati nel tempo), la "solfa" non cambia. Ma, e il “Ma” fortunatamente c’è, il finale di questa premessa non è un superficiale “ragazzi, ammettiamolo, Mould ormai rimesta la stessa minestra da anni”, perché se lo consideriamo un Numero Uno del mondo del rock alternativo (o underground, o metteteci voi la definizione che ancora ritenete valida nel 2025), è perché Mould non ha mai smesso di essere un Autore, e pure uno dei migliori.
Immaginate ad esempio se Leonard Cohen avesse fatto a tempo registrare una sua versione di Hard to Get, o pensate se Joe Cocker avesse notato il potenziale da mainstream-rock radiofonico di una When The Heart is Broken, e davvero non si farebbe fatica a farlo. E questo funziona perché i brani di Mould sono ancora ottimi innesti di ottimi testi (qui più nostalgici del solito), e melodie “quasi-pop” che potrebbero vivere benissimo anche se confezionati con una carta da pacchi diversa da quella che lui usa ormai da anni. Here We Go Crazy è solo il nuovo capitolo di un lungo libro che forse potrebbe anche cominciare a stancare qualcuno, perché poi sì, probabilmente lui non cambia le impostazioni dell’amplificatore della propria chitarra da anni, e credo che se ne guardi anche bene dal farlo, ma abbiamo 11 nuove canzoni di Bob Mould, e non è mica facile trovarne di altrettanto belle anche nel 2025.
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