Bonnie “Prince” Billy - The Purple Bird (2025)
Sono più di trent’anni che Oldham pubblica dischi (iniziò a nome Palace nei primi anni ‘90). Il moniker del Principe Billy è quello che ha utilizzato di più, col quale cioè ha messo a referto oltre venti album, non pochi dei quali frutto di collaborazioni, ad esempio coi Tortoise, Mariee Sioux, Matt Sweeney e Bill Callahan tra gli altri. Nel complesso, parliamo di una discografia corposa che si è sviluppata con una certa regolarità, senza grossi cali né interruzioni (a parte i tre anni di vuoto tra What the Brothers Sang del 2013 e Best Troubador del 2017). In tutto questo c’è però un grande “ma”: dov’è finito il cantautore che impastava foschie, tremori e fuochi fatui nell’ossario della cultura USA (anzi, Americana), accucciato in un crepuscolo emotivo apparentemente senza inizio né fine, hobo spiegazzato sempre sul confine tra la comfort zone del folk(country)-rock “tradizionale” e un alt-country sottoposto all’apnea strutturale del post-rock?
Non è facile rispondere. Mi azzardo a ipotizzare che ci sia stata negli ultimi – diciamo – vent’anni una sovrapposizione di stati, che ha visto cioè il cantautore canonico prevalere progressivamente sull’underdog anomalo, con quest’ultimo tuttavia per nulla disposto a mollare, presenza indelebile come certi segni che restano sul volto quando si è fissato troppo a lungo il lato oscuro della strada.
Oggi, neppure due anni dopo il buon Keeping Secrets Will Destroy You, Oldham decide di oltrepassare una linea: con The Purple Bird infatti raggiunge – anche in senso geografico – il centro gravitazionale della faccenda, quella Nashville che è fulcro del patrimonio country e bluegrass, di cui conserva e mantiene operative le filiere poetiche ed estetiche, riuscendo a tenerle in rotta malgrado le burrasche che negli anni hanno spostato le coordinate sonore, beh, un po’ ovunque.
Forse non è un caso che un disco così accada oggi, visto l’incremento di artisti e band variamente riconducibili al folk e al country nelle playlist USA registrato negli ultimi mesi. Non è questa la sede per anche soltanto abbozzare un’analisi del fenomeno, resta il fatto che il buon Will ha coperto i circa trecento chilometri che separano Louisville dalla capitale del Tennessee per affidare una dozzina di canzoni alle cure del produttore David “Ferg” Ferguson, una vera autorità in materia (ha lavorato per Johnny Cash, John Prine e T-Bone Burnett, ma anche per Kurt Vile, Jakob Dylan e per gli U2 altezza Rattle And Hum).
Questa non certo trascurabile premessa, nonché la partecipazione di musicisti ben noti nella scena di Nashville quali il mandolinista Tim O’Brien e i cantautori John Anderson, Ronnie Bowman e Tommy Prine (figlio di John), delimitano il perimetro entro cui questo album esiste, la sua dimensione, la palette espressiva: che è appunto il country folk, rispetto al quale il prefisso alt- diventa un retrogusto residuo appena percepibile, una memoria omeopatica. Pare insomma che Oldham abbia voluto mettersi alle spalle la necessità di stabilire (e rispettare) confini tra country-folk canonico e alternativo, sottoporre cioè la propria calligrafia allo stress-test delle forme tradizionali fidando nella facoltà di produrre senso comunque, di invadere il territorio “nemico” nel momento stesso in cui smette di essere percepito come tale, prendendo atto di come i suddetti confini abbiano senso ormai “solo” come categoria algoritmica.
Queste canzoni sembrano insomma volersi riappropriare della porosità del reale, che non è mai davvero questione di salti discreti tra “mainstream” e “alternativo”, tra conforme e difforme, ma casomai di slittamenti, sfumature, temperature. Fin dall’iniziale Turned to Dust (Rolling On) l’ascoltatore è invitato ad accedere in un luogo accogliente: lap steel, organo, violino e cori a guarnire una ballata che cova un malanimo cui fa da antidoto una speranza plausibile, insomma una ballad come ti aspetti risuonare nei front-porch al crepuscolo tra i rimpianti dolciastri della mezza età. Ed ecco che subito ci si rende conto di una cosa: Oldham non ha mai curato il canto a un tale livello. La sua voce fragile e antigraziosa è sempre stata un’intrusa, la rotella arrugginita del meccanismo che faceva di lui una sorta di anti-musicista, un bardo-profeta-trickster occasionalmente in grado di confezionare canzoni lancinanti. Invece, qui, oggi, ascoltiamo la voce di un cantante.
Certo, non è diventato di colpo un virtuoso, le fragilità restano, ma il punto è proprio questo: con la più classica delle strategie da Cavallo di Troia, Oldham mette a punto un codice in grado di aprirsi un varco in territorio Nashville dove inevitabilmente introduce le tossine di uno sguardo in grado di svelare la nudità della desolazione, il fine corsa della dolcezza, la cruda vacuità delle prospettive. Si prenda Our Home, valzer da congrega (cantato assieme a O’Brien) nel cui vitalismo saltellante riposa un retrogusto sardonico, o si consideri la disperazione sinistra in un altro valzerino da granaio come Guns Are For Cowards. Lo schema si rovescia pur conservando metodo e finalità, come ad esempio in London May, ballata dalle strofe livide e tese che poi il ritornello affranca grazie a un fervore struggente.
Ogni episodio è un siparietto che mette in scena assieme a se stesso il fantasma del proprio contrario, come confermano le delicatezze tristanzuole di New Water – neanche troppo vaghi rimandi Neil Young tra ricami di violino e borbottii di ottoni – e una One of These Days (I’m Gonna Spend the Whole Night With You) spedita a esplorare il confine tra romanticismo e malanimo. Detto di una Boise, Idaho che sparge malinconia densa impastando organo e lap steel, pudore meditativo e franchezza disarmante, gli apici della scaletta sono due momenti convintamente ibridi: Sometimes It’s Hard to Breathe col suo passo ondeggiante e speziato nelle lande di un country-rock dalle ipnotiche curvature psych, e soprattutto Is My Living In Vain?, folk blues spettrale e al tempo stesso accorato che spedisce domande al cielo riguardo all’inutilità di più o meno tutto.
Tirando le somme, è un disco che si presta all’equivoco: rispetto ai capolavori I See A Darkness e Master And Everyone può sembrare l’ennesimo album defatigante, tuttavia se proviamo a mettere in prospettiva il percorso discografico di Oldham questo The Purple Bird somiglia casomai a un approdo, alla tappa finale di un processo di avvicinamento a quelle forme tradizionali che nella cuspide del passaggio di millennio – in quell’atmosfera resa frizzante da tutti i paradigmi sul punto di crollare e dissolversi – era necessario e giusto mettere in discussione. Possiamo parlare quindi di una prosecuzione di Bonnie ‘Prince’ Billy con altri mezzi, da cui esce per molti versi più attuale, collocato sulla linea del fronte tra il presente e tutto ciò che sarà. O non sarà.
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