Mogwai – The Bad Fire (2025)

 di Fabio Gallato 

Trent’anni di carriera, ma per i Mogwai non si può parlare di traguardi, perché i traguardi non si limitano a superarli, li polverizzano. Ribaltano gli standard, definiscono concetti solo per distruggerli e ricostruirli, pezzo dopo pezzo, disco dopo disco, in un’esplorazione continua del tempo e della sua elasticità, piegata di fatto alle loro esigenze creative. Eppure, con il precedente “As The Love Continues”, sembrava che gli scozzesi avessero raggiunto il culmine. Il primo posto nelle classifiche britanniche, per quanto possa ancora contare, per un disco post-rock, per quanto questa definizione possa ancora contare, suonava come il coronamento di di una storia, forse perfino la sua destinazione finale: un monumento eterno all’avventura artistica di questi provocatori musicali, mai stanchi e mai sazi.

E infatti, eccoci qua, con “The Bad Fire”, espressione scozzese utilizzata dalla classe operaia per indicare l’inferno, perfettamente calzante per descrivere il periodo passato dal tastierista Barry Burns mentre sua figlia affrontava gravi problemi di salute. Non è dunque un caso che il disco si basi fortemente sui suoi sintetizzatori e i suoi suoni spaziali, perché è così che si scrivono le canzoni, facendo i conti con la vita. C’è un velo di cupezza che si stende lungo i 10 pezzi in scaletta, un colore scuro, nuovo, e nemmeno la solita scelta di titoli nonsense, ma non sempre, riesce a squarciare del tutto. È come se per la prima volta nella loro carriera i Mogwai abbiano usato la loro musica per venire a patti con il dolore, per non lasciarsene soverchiare, ma piuttosto per attraversarlo fino a trarne energia vitale.

C’è tutto l’universo dei Mogwai in “The Bad Fire”, c’è dentro tutto quello che gli anni passati hanno significato per loro e per chi li ha sempre ascoltati: l’utilizzo del vocoder, ormai marchio di fabbrica ed emblema di un linguaggio che è solo loro (Lion Rumpus), il popgaze di Fanzine Made of Flesh che prosegue il discorso iniziato con la clamorosa Ritchie Sacramento del disco precedente, la malinconia crescente di If You Find This World Bad, You Should See Some of The Others che riporta indietro di tre decadi, la voglia di sperimentare ancora, come nello shoegaze di 18 Volcanoes, bellissima, o in What Kind of Mix is This?, autenticamente rabbiosa. E proprio la rabbia per certi versi è un tratto caratteristico e nuovo del disco, soprattutto per chi ha sempre visto i Mogwai come gente che non si arrabbia mai. A volte è soffocata e si tramuta in tensione, come in God Gets You Back, altre disegna scintille in cielo, come nei finali di Hi Chaos e Lion Rumpus.

Si potrebbe certamente definire un disco di mestiere, ma il mestiere dei Mogwai non lo sa fare nessuno: “The Bad Fire” sembra nascere da un momento di ulteriore transizione per gli scozzesi, la cui discografia non è fatta di svolte a gomito, ma di espansioni graduali. Questo non è dunque un lavoro che stravolge il loro sound, ma lo arricchisce, intrecciando le intuizioni primigenie con una modernità raffinata. Gli archi, i suoni fantascientifici e i loop di drum machine che qui fanno capolino non sono semplici abbellimenti, ma elementi che sublimano un linguaggio musicale già ai massimi livelli, mostrando come anche nei periodi più difficili ci si possa rinnovare.

Tra incendi che non si spengono e nuovi fuochi che si attizzano, ritrovarsi nei Mogwai è sempre un piccolo sollievo.

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