The Weather Station - Humanhood (2025)

 di Angela Denise Laudato

Dopo il grande successo, nel 2021, di “Ignorance“, uno dei dischi indipendenti più osannati dalla critica musicale (The Guardian l’ha definito un “heartbroken masterpiece”) ed entrato nelle classifiche di fine anno di The New Yorker, UNCUT, The Globe and Mail e The Observer, oltre che nella TOP10 di New York Times, The Guardian, Pitchfork, PASTE, Exclaim, The Quietus, Stereogum e molti altri , e, nel 2022, di “How Is It That I Should Look at the Stars”, la folk rock band canadese di Tamara Lindeman torna con un ottavo album: “Humanhood”.

In copertina troviamo raffigurata Tamara Lindeman, accovacciata nell’oscurità, avvolta in coperte che ritraggono copie sgualcite della sua stessa immagine, quasi a ricordare la versione tetra di un quadro di Salvator Dalì, dove le parti disparate del sé si dissolvono e si uniscono, in beffa al tempo e allo spazio, in quello che sembra l’unico modo che l’identità conosce per deformarsi e incresparsi. La scena evocata ha qualcosa di norreno, mitologico, come fossimo di fronte ad un magico rituale, che si sfuma nel buio ai margini, dove troviamo scarabocchiati il titolo e il nome della band.

“Humanhood” si pone come punto di incontro tra contrasti: batteria dritta, pianoforte morbido e drappeggiato, sassofono e percussioni astratte, clarinetto errante, toni organici e sintetici che raddoppiano e si dividono, in quella che vuole essere la nuova chiave di lettura della musica e della melodia folk. Un disco ricco di dettagli intensi: note di pianoforte che si disintegrano, violini che si materializzano dal nulla, quasi fossero nuvole di passaggio. I brani sono pop, chiari e potenti, trasportano l’ascoltatore da una parte all’altra del disco tra brusche giravolte, cambi di tono e dissolvenze di synth. Al centro del lavoro, ovviamente, c’è l’umanità in tutte le sue sfaccettature: radiosa, propulsiva, discorsiva, a volte strana.

Senz’ombra di dubbio è, finora, il disco più viscerale dei Weather Station, ma anche il più imponente e cinematografico. Le dieci tracce che compongono “Humanhood” sono un lungo viaggio dalla dissociazione alla connessione; una continua evocazione di paesaggi interiori, tanto claustrofobica quanto travolgente, specchio sonoro degli stati d’animo raccontati tra i versi.

La fiamma che ha ispirato la Lindeman alla scrittura del nuovo disco si è accesa durante il lungo periodo di disturbo di depersonalizzazione cronica da lei vissuto, ovvero persistente o ricorrente sensazione di scollegamento dal proprio corpo o dai propri processi mentali, come se si stesse osservando la propria vita dall’esterno, e dalla sensazione di essere dissociato dall’ambiente: “Queste cose che stavo vivendo; questa alienazione, questa dissociazione, questa perdita di coerenza narrativa, questa perdita di innocenza o fiducia – queste cose sembravano totalmente collegate a ciò che vedevo intorno a me” – dice in un’intervista. E così sono nate le canzoni. Tamara Linderman è nota per essere un’artista in continua evoluzione e nelle sue nuove canzoni troviamo candore e desiderio urgente di comprendere l’origine di tutte le sofferenze e delle gioie. In questo senso, “Humanhood” è il suo personale percorso di redenzione.

Ad introdurre questo viaggio troviamo il breve strumentale Descent, intimo ed introspettivo, che prepara il terreno per il vortice di armonie rock-blues, tinte di puro jazz, di Neon Signs. Benché l’incedere ritmico sia quasi raggiante, le parole gridano timore per il collasso dell’umanità: “But nothing needs you so badly as a lie, / so lonely, drifting, unmoored from real life / if nobody believes it all it can do is die” – canta Tamara nel finale mentre il suono del pianoforte sfuma i contorni elettronici e di un algido flauto. “Ho scritto ‘Neon Signs’ in un momento in cui mi sentivo confusa, sottosopra” – racconta la Lindeman – “In quel momento in cui anche il desiderio svanisce e la dissociazione ti separa da una storia che, sebbene sbagliata, continuava a tenere insieme tutto. La canzone arrivava con più fili intrecciati; il modo in cui qualcosa che non è vero sembra avere più intensità energetica di qualcosa che lo è, la confusione di essere bombardati dalla pubblicità in un momento di emergenza climatica, la confusione di relazioni dove la coercizione è avvolta nel linguaggio dell’amore. Alla fine, però, non è tutta la stessa sensazione?”.

A seguire troviamo la struggente Mirror e la sua maniacale cura degli arrangiamenti. Il brano sviscera il tema del corpo come costante traditore da un lato e insegnate dall’altro: “you thought you knew what it was you loved / then again – look at this mess / your body fooled you / your body moved you – yes”. Dalle tonalità quasi funky Window, e sembra davvero spalancarsi dinanzi a noi una finestra verso un tentativo di fuga: “My heart is racing as a window opens somewhere to let me out”. Dopo il secondo elettronico strumentale Passage, è la volta di Body Moves: “Questa canzone è stata la più difficile, l’abbiamo registrata, abbiamo cambiato tutto, l’abbiamo registrata di nuovo. Doveva essere tenera, livida e dolorosa; come cadere in un sogno ma anche nella realtà. Questa è stata un’altra canzone che ho rifiutato quando l’ho scritta perché non ero sicura di sostenerla” – racconta Tamara – “il corpo ti inganna, il corpo ti muove, a volte in direzioni apparentemente autodistruttive o dolorose o viscerali. I corpi sono biologici e così il loro linguaggio: chimica, dolore, impulso, spegnimento, risveglio. Ciò che conta è l’interpretazione, la risposta, la capacità o meno di sentire il segnale”. La traccia è stata accompagnata da un suggestivo video, diretto dalla Lindeman e da Philipe Léonard,che esplora i due emisferi della mente. “Un lato prende il comando, si muove con intenzione. L’altro lato è come se entrasse e uscisse dai sogni ed è più astratto. Al centro c’è il sé vero e proprio, in uno stato di confusione, trascinato da queste due parti separate. A volte tutti i sé si coordinano e si muovono insieme. Altre volte non lo fanno” – spiega Tamara – “La canzone descrive l’essere fuorviati dal corpo; una parte di voi tira in una direzione diversa dall’altra. La coreografia riflette questo aspetto: gli arti si muovono con una mente propria”.

Dolorosa, minimalista e malinconica è Ribbon e la descrizione del viaggio “down to the water / just to put my hands in it / feel if it’s cold / bring it to my mouth to taste the salt / tang on my lips / just like a kiss”, nelle sue splendide tessiture di synth. Fleuve è un brano ondeggiante, laconico, che culla l’ascoltatore per sfociare poi nella successiva title track, come fosse trasportato dall’acqua, immagine ed elemento metaforico in tutto il disco: “Maybe if I go down to the water / maybe I can get back into my body”. In Irreversible Damage, vera e propria perla di ispirazione all’interno del disco, troviamo il tentativo di confronto col dolore e la perdita. Impregnata di devastante bellezza noir Lonely mette a nudo ansie e timori: “How could it be that all this / these strange feelings, this physical pain, this wincing at the sound of your name, was only / a sign of being lonely?”. Tutta la solitudine svanisce in Aurora, ultima traccia strumentale del disco. Delicata ed eterea, sembra far riappropriare l’ascoltatore di tutti i sogni rimasti sospesi.

Punto cruciale e finale d questo viaggio emotivo e filosofico è Sewing, ballata liberatoria, taumaturgica, bella ed incerta. Le sonorità sono un continuo incastro di armonie, ritmi e contrappunti melodici. La metafora del cucito si impone come una sorta di atto spirituale dell’unire insieme, in modo imperfetto, paura, consapevolezza e dolore stesso, i quali si pongono come esperienza comune e necessaria per imparare a vivere. Un assolo di clarinetto chiude il disco, oscurato da un’ondata di synth, che sembra spazzare via tutto il suono, lasciando posto ad una chiusa inaspettata: “I’m walking from side to side, I’m taking pictures of the sky again, I don’t know why / I guess I wanted to”.

“Humanhood” dei Weather Station non è un disco semplice ed immediato, ma è sicuramente una perfetta narrazione del febbrile e multiforme caos emotivo che può insinuarsi in ogni ascoltatore di passaggio, se vorrà prestare orecchio. I brani si nutrono allo stesso modo di dubbi e riflessioni e di luce e oscurità, con una lucida onestà che non può lasciare indifferenti. Come sempre, alla ricerca di risposte.

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