Jontavious Willis - West Georgia Blues (2024)

di Fabio Cerbone 

Dalla Georgia più rurale direttamente al mondo, per diffondere il verbo del blues o di quello che ne è rimasto e che ancora vibra delle emozioni del passato. Battito minimale e voci a cappella introducono il West Georgia Blues di Jontavuous Willis, curioso nome di un musicista che non da adesso sta cercando di aprirsi un varco nella tradizione, conservandola e al tempo stesso offrendole una nuova vita, in linea con gli esordi che furono di colleghi quali Corey Harris o Alvin Youngblood Hart. Il discorso musicale di Jontavious è coerente e non sceglie a caso il sentimento incontaminato del gospel per aprire le porte del suo viaggio di ricognizione nella Georgia, che è la casa della sua famiglia dal 1823 (così canta nel brano omonimo): educato nella Mount Pilgrim Baptist Church del nonno fin da bambino, dalla gospel music alla “mondanità” del blues il passo è breve si sa, con tutte le tentazioni del caso, se volessimo seguire il racconto affabulatorio del genere.

Siamo però nel 2024 e qui non si tratta più di scontati crocicchi e diavoli, semmai di riconoscersi in un percorso umano e in un linguaggio musicale che Jontavious Willis dimostra di avere assimilato in tutte le sue sfaccettature, con una versatilità interpretativa e una padronanza fra acustico ed elettrico (sue gran parte delle chitarre, alle quali si aggiungono sporadici contributi di Jon Atkinson e Jay Hoop) che ha del soprendente per il suo sgusciare tra gli stili, ora bruschi come un antico blues del Delta (Broken Hearted Moan, Rough Time Blues), ora più narrativi e personali (Charlie Brown Blues, Time Brings About a Change) o ancora pronti ad abbracciare i toni più morbidi caratteristici del cosiddetto Piedmont blues (Ghost Woman). Che siano Son House o il giovane Muddy Waters non ancora immigrato a Chicago, Blind Lemon Jefferson o Mississippi John Hurt a fare da stella polare, chi ne esce trionfatore è soltanto Jontavious Willis, qui al terzo album in carriera dopo l’esordio Blue Metamorphosis del 2016 e quello Spectacular Class (2019) che gli valse una nomination ai Grammy.

Oggi si produce da solo, accentua le dinamiche rurali della sua musica e fa tesoro delle esperienze in tour (con Taj Mahal, e si sente nella gioia un po’ “caraibica” che coinvolge Keep Your Worries on the Dance Floor o nel vecchio swing di A Lift Is All I Need) per raccontare sofferenza e povertà certo, ma anche condivisione e gioia, rifuggendo i luoghi comuni “necessari” di un blues che qui vuole essere soprattutto testimonianza del proprio angolo di mondo, non per chiudersi in se stesso ma per farsi partecipe del mondo che lo circonda.

Willis ne ricava un bottino molto ricco, quindici brani, ma soprattutto interamente orginale, aspetto non secondario in un ambito dove la rielaborazione degli standard è una regola: West Georgia Blues è invece pronto a illustrarci le sue storie autentiche, accompagnandoci nel juke joint di Jontavious prima con le invocazioni acustiche e ossute di Too Close to the Finishing Line e Earthworn Basement Blues, quindi colpendoci a tradimento con la cruda e trascinante Lula Mae (il passaggio più elettrico ed eccitante dell’album, con la sezione ritmica formata da jay Hoop e Rodrigo Mantovani), il ragtime piccante di Squirrlin’ Mama (al piano Ethan Leinwand), il lascivo e primordiale blues elettrico di una Lost Ball che potrebbe sbucare da un vecchio 45 giri della Chess.

Quando è ora di chiudere il locale, tutti escono fradici e soddisfatti eseguendo la danza di Jontavious’ West Georgia Grind, strumentale “di congedo” con la band al completo che risolve il cammino intrapreso a bordo del West Georgia Blues.

Fonte originale dell'articolo

Commenti

E T I C H E T T E

Mostra di più