Jake Xerxes Fussell - When I'm Called (2024)
Dopo quattro album licenziati dalla meritoria Paradise of Bachelors, Jake Xerxes Fussell approda nei ranghi della più blasonata Fat Possum, ma senza dare particolari scosse a una visione estetica che era già ben delineata fin dal primo vagito discografico (correva l’anno 2015) e senza mostrare la volontà di battere strade troppo lontane da quelle che gli hanno fin qui attirato lode e ammirazione pressoché incondizionate. Anzi, dove la precedente, penultima fatica, apriva timidamente alla scrittura personale (su Good and Green Again ben quattro brani portavano la sua firma), When I’m Called torna a scavare (quasi) esclusivamente nel repertorio tradizionale, concedendosi solo qualche eccentricità nella scelta delle fonti cui attingere. E’ il caso per esempio della canzone che intitola l’album, che nasce da una sorta di decalogo del bravo studente ritrovato su una rivista (“Risponderò quando mi chiameranno, non ballerò la breakdance nei corridoi, non riderò durante l’appello…”), cui Fussell dona un accompagnamento elettro-acustico piacevolmente caracollante e vagamente jazz.
Anche la spartana Andy, che inaugura la tracklist con una nota di malinconia quasi tex-mex, ha un’origine particolare: è stata composta da un pittore e artista visuale, Gerard Gaxiola, che si faceva chiamare “The Maestro” e che negli anni ’80 si inventò un festival a cui cercò di invitare Andy Warhol (a lui la canzone è dedicata…). Per il resto, come il buon Jake ci aveva già piacevolmente abituati, su When I’m Called troviamo canti di marinai, blues, folk songs pescate da quel patrimonio di field recordings che ha costituito per decenni il controcanto rurale dell’America più marginale e che viene restituito alle nostre orecchie riplasmato con l’abituale freschezza e capacità affabulatoria e immaginativa. Cuckoo! per esempio si serve di una giravolta di archi che dà ariosità al brano, mentre in Gone to Hilo il baritono di Fussell si fonde con la dolcezza della vocalità di una ritrovata Robin Holcomb. La conclusiva Going to Georgia poi è pura “cosmic american music”, capace di evocare spazi deserti e assolati. L’unica scelta di una qualche notorietà è la ballata tradizionale inglese One Morning in May, ripresa anche da James Taylor in un suo disco dei ’70, e che nelle mani di Fussell diventa un valzer dagli accenti raga (Davey Graham avrebbe apprezzato).
Il segreto del posto speciale che questo chitarrista del North Carolina occupa nell’ampio panorama del tradizionalismo folk a stelle e strisce è stato già ampiamente svelato e ad ogni uscita tocca ripetersi, ma lo facciamo volentieri: Fussell non tratta la materia con rigida e scrupolosa devozione filologica, ma si comporta piuttosto come il bambino che gioca con gli oggetti polverosi ritrovati in solaio, trasformando cimeli di nonni e bisnonni in materiale ludico da maneggiare con spirito appassionato e volontà di ricavarne piacere. Lo assiste, di ritorno dopo che aveva già prodotto il disco precedente, James Elkington e al gioco partecipano diversi altri tradizionalisti dalla mente aperta e dall’approccio non scolastico, come il chitarrista Blake Mills o la chanteuse folk Joan Shelley. Come ci suggerisce l’immagine di copertina, Jake Xerxes Fussell non si perita di procedere tranquillo per la sua strada pur guardando dietro di sé: oggi come oggi non sono molti a percorrere le “roots highways” con questo spirito. Lunga vita a lui, quindi.
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