Phantom Band - Strange Friend (2014)

di Gianfranco Marmoro

The third difficult album è la soglia entro la quale i critici inglesi tirano le somme di una carriera discografica: superato lo scoglio, tutto è permesso e lecito. Il problema è che nonostante il terzo progetto del gruppo scozzese “Strange Friends” sia l’album della loro definitiva consacrazione, trovo molto complessa e difficile una loro espansione al di fuori delle lande anglofone. Ed è un peccato, perché la Phantom Band, col suo mix di folk e kraut, ha dato vita a un nuovo idioma indie-rock che solo in parte è figlio delle folgoranti intuizioni della Beta Band; il percorso si è sviluppato prima attraverso le pagine più ambiziose di “Checkmate Savage” e poi attraverso quelle egualmente originali di “The Wants”.
In “Strange Friends” il tono muscoloso e leggermente scomposto resta in primo piano, ma il linguaggio diretto e accattivante evidenzia una scrittura matura e arrangiamenti eleganti: la Phantom Band porta l’indie-rock lontano dal fervore della gioventù per un suono più adulto.
Il recente album solista di Rick Anthony Redbeard “No Selfish Heart” ha fatto da ponte tra “The Wants” e il nuovo progetto: il cantante ha affinato le sue doti vocali con un folk da crooner tinto di gothic che sembrava lontano dalle sonorità del gruppo e che invece si manifesta tra le pieghe delle nuove nove tracce.

Non è un album dal fascino semplice e immediato, “Strange Friends”: nonostante sia empio di melodie memorabili, interpretazioni più intense e brillanti, chitarre e organo e una più corposa e variegata tessitura ritmica che come fulmine a ciel sereno tratteggia luci e ombre. È quindi un album che necessità di più ascolti per essere assimilato, ma non privo di stand-out track che catturano anche i distratti del primo ascolto, con pagine epiche ricche di armonie e ritmo che crescono emotivamente come il grano nel latte (“The Wind That Cried The World”), e straordinarie architetture di organo e batteria (un indemoniato Ian Stewart) che folleggiano su riff talmente appiccicosi da suonare familiari (“Clapshot”).
La magia si impossessa delle pagine più tenui come “(Invisible) Friends”, con ritmiche frastagliate, trame psichedeliche e canto baritonale che festeggiano notevoli intuizioni armoniche, in converso le robotiche linee ritmiche alla Kraftwerk di “Women Of Ghent” sono invece infettate da un’aliena nuance di folk scozzese che ubriaca suoni e ritmi fino a renderli anarchici e liberatori.
Ovviamente il termine indie-rock sarà quello più ricorrente nelle recensioni che scorrerete con gli occhi, ma soffermatevi un attimo ad ascoltare lo strano matrimonio tra folk, garage e Doors di “Sweatbox” o il blues elettronico alla Human League di “No Shoes Blues”, e avrete la giusta misura della loro originalità: il loro mix stilistico è fuori dall’ordinario e non segue alcuna apparente logica etica.

Anche l’acustica “Atacama” risuona inquietante e bislacca nella sua lunatica evoluzione lirica, ma è nulla in confronto alle sinistre torture ambient alla Brian Eno-John Cale che in “Galápagos” vestono a nuovo suoni di banjo e gamelan percussion forzando i confini armonici.
Chi fosse ancora in dubbio sulla notevole caratura del terzo album degli scozzesi non ha che da porgere l’orecchio a “Doom Patrol”, un pop-metal-psichedelico che, incastrando alla perfezione elettronica ed acustica, fa spazio anche a una chitarra acid–house che non mancherà di influenzare i prossimi hipster. Perché accontentarsi però di un surrogato? Meglio gioire di questo splendido archetipo di new indie-adult-rock. 

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