Faust - Faust (1971)

Probabilmente, è questo disco che descrive appieno l’idea di “strano” che mi è venuta in mente per le scelte di Gennaio. Siamo a fine anni ‘60: come ho raccontato qualche mese fa in un mese dedicato al kosmik rock, la Germania, soprattutto occidentale ma non solo, sfornò una serie di band creative che spostano il concetto di rock band ai limiti estremi di un certo percorso ideologico, a lambire l’avanguardia, la musica concreta e le sperimentazioni elettroniche. Eppure la band di oggi nasce con uno scopo ben più utilitaristico: Uwe Nettelbeck, critico musicale e cinematografico, produttore e agitatore culturale ha in mente di creare una band che possa inserirsi nel filone di successo e di “fama” delle prime grandi band del movimento, tra tutte Can e Kraftwerk. Mette insieme dei musicisti, per lo più autodidatti, per un ensemble la cui prima formazione era composta da: Hans Joachim Irmler all’organo e la parte elettronica, Zappi Diermaier alla batteria, Arnulf Meifert alle percussioni, Jean Hervè-Peròn al basso, chitarra, e voce (sebbene in modi del tutto particolari), Gunther Wüstoff al sassofono e alla cura del sintetizzatore e Rudolf Sossna alla chitarra e alle tastiere. Scelgono un nome, Faust, che ha una simbologia duplice: da un lato il richiamo al mito dell’uomo che per sete di conoscenza vende la sua anima, dall’altro il termine in tedesco vuol dire anche pugno, politico e rivoluzionario. Si spostano a Wümme, che oggi si chiama Rotenburg, una città della Bassa Sassonia, dove organizzano uno studio creativo e di registrazione nella vecchia scuola, con un contratto firmato per la Polydor che produrrà il loro primo disco. Pensano al primo disco, con una idea ben precisa: spazzare via tutto quello che era stato fatto in precedenza, creando dei nuovi parametri di ascolto che non siano quelli della melodia, o dell’orecchiabilità. Faust (o Faust I nelle ristampe moderne) vede la luce nel 1971. Infatti Why Don’t You Eat Carrots?, che comincia con un sibilo elettronico, all’inizio ha echi di (I Can’t Get No) Satisfaction dei Rolling Stones e di All You Need Is Love dei Beatles, per poi trasformarsi in una corsa sgangherata e ipnotica che allunga le note, dove le chitarre sembrano spernacchiare piuttosto che suonare (in omaggio alla lezione di Frank Zappa), che si ferma, interrotta da dialoghi, risate, sussurri che sembrano provenire chissà da dove, e poi riprende, con un andamento che non si capisce mai bene se sia un organizzato caos o un fluire sentimentale di emozioni che i musicisti, improvvisando, mettono in sequenza. E così, in questo flusso di suoni, si perdono i primi 9 minuti di disco. Che continua in maniera ancora più bizzarra: Meadow Meal parte come se raccontasse di una catena industriale, rumori, scricchiolii, influenzando in questo tutto un filone di musica che nascerà di lì a poco, e poi il sibilo del primo brano, stavolta ancora più prorompente, che sfuma in una chitarra acustica e in una nuova sgangherata e zoppicante musica a sorreggere una melodia che cresce in un vorticante jam blues-rock per poi riscendere, verso il tema iniziale e in un rumore di pioggia post apocalittica, lievemente inquietante. Come chiudere un disco del genere? Miss Fortune va ancora oltre. Qui si spinge forte sull’elettronica, sebbene il brano inizi con la tipica struttura della musica del periodo, un tappeto di percussioni ossessivo e marziale, chitarre, le meraviglie elettroniche dell’epoca. Poi però, dopo il caos, la sensazione di precipitare in un tunnel, un buco sonoro intervallato solo da rintocchi di triangolo, fin quando, dopo urla ed echi tra l’umano e il post umano, è la batteria che riprende il ritmo, sostenuta dalla chitarra che prima giganteggia, per poi intrufolarsi in una sorta di balbettio di accordi, con un pianoforte a prenderla per mano e riportarla alla “melodia”, prima che un collage di rumore, che diventerà il loro marchio di fabbrica, porti all’ultimo spezzone, dove due voci che parlano tra loro, si chiedono: “Are We Supposed To Be Or Not To Be?”, iniziando un discorso quasi filosofico, alternando una parola ciascuno fin quando insieme non dicono ”nobody knows if it really happened”. Un disco che presuppone un ascolto quasi mentale più che solo uditivo, non poteva che avere una copertina leggendaria: il vinile trasparente era confezionato in una busta di cellophane, dove era ritratta la radiografia di un pugno, a simboleggiare la band, con un altro foglio trasparente per i testi e i crediti. Visto il fiasco commerciale, e le poche copie vendute, è uno dei pezzi forti del collezionismo musicale, anche perchè tutte le successive ristampe persero la meravigliosa idea iniziale. I Faust ci provano l’anno successivo con So Far (1972), che ha copertina tutta nera, dove le magie del primo si diluiscono in brani più accessibili, ma la voglia di bizzarrie non finisce certo qui, e ci pensa The Faust Tapes (1973) a creare definitivamente il mito: un collage di registrazioni, avvenute tra il 1971 e l’anno dopo a nello studio di registrazione di Wümme, messo insieme con la tecnica dell’accoppiamento elettronico, per due lunghi brani da 20 minuti per lato, non c’è più idea di brano strutturato, le improvvisazioni musicali si intrecciano con le riflessioni durante le prove, ci sono risate, chiacchierate, rumori, senza nessuna soluzione di continuità. La Virgin di Richard Brenson, appena nata, fiutando il colpo mediatico mette in vendita il disco a 48 pence, il prezzo di un singolo, vendendo oltre 100 mila copie, sebbene il disco non venga conteggiato negli annali di vendita per via del prezzo “non consono” ad un LP. La prima fase dei Faust termina con Faust IV, del 1973, registrato in Gran Bretagna e di gran lunga il loro disco più “normale”, con anche due piccoli successi radiofonici, Krautrock e It's A Bit Of A Pain. Si scioglieranno e riprenderanno nel 1994, con Reine: nel frattempo hanno segnato una generazione intera che prenderà spunto dalla loro musica diversa per creare altri capolavori (i primi che mi vengono in mente, i Pere Ubu di The Modern Dance) per una delle band più strane, e inimitabili, della storia del rock.


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