Dylan canta Sinatra. Un atto d’amore

Quest'album non è un cedimento senile e nemmeno una mossa di stanchezza. Dylan lo ha fatto davvero per amore. 

di Riccardo Bertoncelli

Cito sempre volentieri Paul Nelson e una sua frase riferita a quando Dylan era una felice ossessione di tutti noi, tanti anni fa. “Alla disperata ricerca di un segno, il mondo seguiva Dylan aspettando solo che gettasse via una sigaretta. E quando lo faceva, si passava al setaccio il mozzicone, cercandovi un significato. La cosa pazzesca è che lo si trovava, ed era pure pregnante.” Non sono più quei tempi e quest’album non è precisamente un mozzicone, ma in qualche modo ci risiamo. Nell’anno dei suoi 74, dopo millanta dischi e anche di più, Dylan si impegna in un album di standard di anni lontani, prendendo a riferimento chi quelle canzoni le ha eseguite, nelle più svariate occasioni, tutte: Frank Sinatra.
Frank Sinatra? Ai tempi di Nelson e della felice ossessione, Bobby e Frank abitavano in due pianeti diversi, ma anche di più, forse uno dentro il sistema solare e l’altro fuori. Ora li scopriamo vicini di casa, e tutti a grattarsi il capo, qualcuno a disperarsi, come e più di quando il Dylan giovane visitò Nashville e si mise a cantare con una voce che non conoscevamo, e tirò fuori dal cassetto Gilbert Bécaud, e noi eravamo convinti che qualche commando terroristico anti rock lo avesse rapito e lo costringesse a cantare quelle cose così sotto tortura. Ma è chiaro che non sono più quei tempi, e dunque astenersi polemici e scandalizzati; ricordando poi che tra Dylan e i dylanologhi ha sempre vinto Dylan, con il suo Marte elusivo e un calendario, e una mappa del mondo che solo lui possiede. Lasciamolo fare, e giudichiamolo per quello che ha fatto. A me Sinatra stupisce non perchè “vecchio” ma perché troppo “nuovo” per un artista che ha chiamato di recente Modern Times un album che al massimo si spingeva dalle parti di Paolo Conte.
Mi sarei aspettato un omaggio alla Carter Family o agli Stanley Brothers o, per restare a Broadway in quel pleistocene, a Rudy Vallée o Ted Friedman; e me lo sarei aspettato non perché sono un salmone bastian contrario e mi piace andar controcorrente ma perché gli album più recenti di Bobby, quelli dopo Time Out of Mind, li ho ascoltati tutti con attenzione, seppur con qualche disappunto, ed era chiara l’aria che tirava. Dylan non è più da tempo il (non)metereologo che ti dice dove tira il vento, come ai tempi di Bringing It o di Highway 61, ma un vecchio signore che abita il tempo lontano delle sue memorie e lì ha fatto la tana, e lì sta benissimo. Le nuove band che fanno presente-futuro come lui faceva presente-futuro con Like a Rolling Stone Bobby non sa neanche chi siano, ma nemmeno i Decemberists, per fare un esempio vicino vicino; ha fatto così tanti figli che se dovesse salutarli tutti anche solo con una pacca sulla spalla, ci vorrebbero anni. È abbastanza vecchio da ricordarsi il mondo prima di Elvis, e lì tornano la sua mente e il suo cuore, e oggi le sue voglie: “la musica delle big band: Harry James, Russ Columbo, Glenn Miller”, lo ha detto nell’unica intervista concessa come promo a questo disco (alla rivista dei pensionati americani!), oltre a Jimmy Reed, al country blues, all’hillbilly e naturalmente al “Grand Ole Opry”.
Quindi bando agli scandali, ma bando anche ai sarcasmi, e ai pettegolezzi. Quest’album non è un cedimento senile e nemmeno una mossa di stanchezza. Dylan lo ha fatto davvero per amore, si è impegnato, ed è tutto fiero dei risultati; ridurre arrangiamenti per orchestra al nudo giaciglio di due chitarre, basso, pedal steel e qualche volta fiati non è una passeggiata, ed è giusto riconoscere gusto originale e puntiglio. Che poi l’ascoltatore rimanga alla fine più perplesso che emozionato, e non proprio fiero, be’, è un altro discorso. Nessuno dei brani splende più degli originali o di certe cover nel tempo intervenute, e non parlo solo di Sinatra; argomento su cui peraltro lo stesso Bobby è portato a darci ragione, così umile e innamorato nella circostanza da negare ogni raffronto – “paragonare me a Frank Sinatra? Non scherziamo. Già essere menzionati nella stessa frase è un gran complimento.” Diciamo che sono copie volenterose, con quel po’ di originalità che abbiamo detto, copie che con ogni probabilità sarebbero passate inosservate se a proporle non fosse stato Dylan; e forse Bobby si immagina di prendere al lazo qualche vecchio amante di standard, oltre che i suoi fedelissimi, ma è difficile che accada, questo anzi è un album che selezionerà anche i dylanologhi, dividendo i tiepidi dai caldissimi. Dipende dall’idea che uno ha di fare le cose “nel modo giusto” “Che ci crediate o meno, ho effettivamente inciso le canzoni nello stesso ordine in cui sono contenute. In media facevamo una canzone in tre ore. Non c’è missaggio, le canzoni erano così come le sentite. Niente trucchetti, niente abbellimenti, niente di niente. Troppe volte le cose sono state fatte nel modo sbagliato. Volevo farle nel modo giusto.”
Non ho detto della voce, che è forse l’elemento più importante, là dove colgo un impegno che spesso Dylan sembra lesinare, specie dal vivo, in nome della sua famosa sprezzatura: una voce scura e irregolare ma non gracchiante e offensiva come d’abitudine, in un (tardo) tentativo di buone maniere, date le circostanze. La voce che avrebbe avuto Robert Zimmerman, mi viene da pensare, se nella vita non avesse fatto il Bob Dylan.

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