Jeremie Albino - Our Time In The Sun (2024)
Garanzia di un bagno rigeneratore nelle sonorità più vintage dela southern music, l’incontro del canadese Jeremie Albino con il chitarrista e produttore Dan Auerbach (Black Keys) presso lo studio di registrazione di quest’ultimo, l’Easy Eye Sound di Nashville, dà vita a un cortocircuito fra passato e presente, mettendo la voce fresca e appassionata di Albino al servizio di canzoni ben costruite, che sanno di mitologia soul ed effluvi swamp country dal prodondo sud. Tutto questo anche se abbiamo a che fare con un ragazzo di Toronto, cresciuto a qualche migliaio di miglia di distanza da Muscle Shoals, dalla leggenda della Stax records e da tutto un campionario di suoni e interpreti che echeggiano nelle tracce di Our Time in the Sun.
È il quarto album in ordine di tempo per Jeremie, ma certamente il primo ad esporlo alle attenzioni internazionali, dopo avere vagato fra Canada e Stati Uniti per qualche anno, facendosi le ossa in tour. Tutto è cominciato dalle strade di Toronto, come si diceva, anche se l’influenza maggiore è giunta dal lavoro in campagna nella Prince Edward County, come racconta il protagonsita stesso nella sue note biografiche: lì scatta l’amore per il blues, i suoni più rustici della tradizione, al servizio di una voce che porta dentro di sé l’impronta del gospel e il sacro fuoco del soul. L’esordio in patria è del 2019, Hard Time, incoraggiante sebbene passato sotto traccia, così come il successivo Tears You Hide, nel mezzo una collaborazione a quattro mani con la collega Cat Clyde nell’album Blue Blue Blue.
La colpevole sorpresa dunque è non avere intercettato fino ad oggi la presenza di Albino, tanto convincenti appaiono le sue qualità di interprete in questo piacevole disco dal tocco retro che si apre sulle note di una I Don’t Mind Waiting che più classic soul non si può, con il santino di Otis Redding a proteggere da lassù. Certo, nulla di nuovo all’orizzonte, anche in fatto di revival: giriamo dalle parti di un Nathaniel Rateliff, come conferma il pathos della seguente Baby Ain't It Cold Outside, e più in generale di una riscoperta di certe sonorità country soul e frecciate rock’n’roll da seconda metà dei 60s. Piace però l’attitudine del protagonista, che sembra crederci fino in fondo, così come coinvolge il groove che Auerbach edifica con mestiere intorno allo stesso Albino, mentre band e collaboratori (in fase di composizione sono coinvolti tra gli altri Pat McLaughlin, Joe Allen e Bobby Wood) sostengono il repertorio dandogli quella spinta in più per emergere.
Let Me Lay My Head è avvolta in languori bluesy, Our Time In The Sun si batte il petto con parossismo rock&soul, mentre Rolling Down The 405 è uno dei pezzi forti della scaletta, sulla strada con i Creedence e il caldo sound di Memphis nel motore. Dan Auerbach piazza i suoi contributi chitarristici in lungo e in largo (fuoco e fiamme soprattutto in Dinner Bell), la sezione fiati avvolge e sottolinea quando serve, e pure nella “prevedibilità” di genere dell’intero Our Time in the Sun, le dinamiche e i bollori dell’incisione riverberano i loro effetti tra la confessione accalorata di Struggling With The Bottle, il crescendo di Give It To Me One Last Time, le preghiere di Gimme Some e l’inevitabile chiusura, intima, acustica e romantica, di Hold Me Tight.
Un bello scherzetto che porta ancora il marchio della scuola di pensiero Easy Eye Sound: occorre capire per il futuro dove comincia davvero il talento di Albino e fin dove arriva la lunga mano di Auerbach.
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