Richard Thompson - Ship to Shore (2024)
di Nicola Gervasini
Sebbene sia “in pista” dal 1966, Richard Thompson ha “solo” 75 anni, e se avete letto la sua autobiografia (Beeswing, in Italia tradotta e pubblicata dalla Jimenez), vi sarete resi conto che a vent'anni aveva già fatto abbastanza per entrare nella storia della musica, anche se per i tempi era persino usuale (pensiamo a Steve Winwood). Questo per dire che il fatto che per la prima volta nella sua lunga carriera si sia preso una pausa discografica di ben sei anni dal precedente 13 Rivers, davvero irrituale per uno stacanovista discografico come lui, non deve suonare come un sintomo di stanchezza, ma di giusta calma di qualcuno che, ancora pieno di forze, non ha bisogno più di correre per sfogarle.
Thompson fa parte di quella schiera di autori stranieri (penso, per esempio, anche a Bruce Cockburn) dalla carriera praticamente perfetta, eppure oggetto di un culto quasi carbonaro in Italia. Non è tuttavia per pura abitudine di parlarne bene (forse giusto per Front Parlour Ballads nel 2005 siamo stati freddini su queste pagine) che ve lo proponiamo come disco del mese, ma solo perché Ship To Shore ribadisce, se mai ce ne fosse bisogno, come si scrive e come si deve suonare una canzone folk-rock. E come magari - pur lavorando ovviamente anche molto di mestiere, come nell’iniziale Freeze o in Turnstile Casanova, che entrano nel suo lungo catalogo di veloci cavalcate alla Tear Stained Letter (per citarne una divenuta anche famosa e riletta da molti) - già una The Fear Never Leaves You o una What’s Left To Lose appaiano quali piccole opere d’arte di songwriting, e visto che parliamo di un maestro in tutti i sensi (da sempre svolge anche l’attività di insegnante di chitarra e musica), direi anche un vero e proprio manuale d’istruzioni per i cantautori più giovani (e ce ne sono che sicuramente tengono i suoi dischi in bacheca, penso a Sam Amidon o Steve Gunn).
Per il resto, chi lo segue da tempo e legge i credits (si torna all’autoproduzione stavolta, dopo una serie di incontri con produttori importanti come Jeff Tweedy o Buddy Miller) sa che prima o poi lo splendido batterista Michael Jerome darà spettacolo (accade ad esempio in Trust), sa che il violino di David Mansfield entra sempre con tatto e gran gusto nella canzone senza invadere il campo (Singapore Sadie), e che quando Richard si siede con l’acustica e intona una triste ballata come The Day That I Give In ci ricorda quanto sia un raro miracolo che un musicista tecnicamente perfetto sia anche una autore e interprete così sensibile.
Visto che i complimenti si sprecano, poi magari togliamo un briciolo di eccessiva benevolenza alla recensione notando che dopo il brillantissimo Sweet Warrior del 2007, anche lui ha un po’ smesso di cercare variazioni al tema e viaggia sempre sul sicuro (brani come The Old Pack Mule o il lungo assolo di Maybe potremmo dire che esistevano già nel suo repertorio, repetita iuvant insomma), ma non è più tempo di rischiare per nessuno ormai, e basta una Lost In The Crowd a renderci felici del fatto che Thomspon sia sempre qui con noi a raccontarci le sue storie.
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