John Moreland - Visitor (2024)

di Fabio Cerbone 

Una liberazione artistica che passa attraverso la ricerca di isolamento dal mondo e il desiderio di riafferrare una semplicità perduta. Come un novello Walden (dal romanzo di Henry David Thoreau) ritiratosi nella natura e nella quiete del suo Oklahoma, John Moreland ha tagliato tutti i fili che lo legavano alle "cose" là fuori, e soprattutto a un piccolo successo (di questo parliamo, certamente non di numeri da rock’n’roll star) che evidentemente viveva come una prigione per l’ispirazione dietro il suo songwriting. Sei mesi di eclissi, lontano da distrazioni, cellulari, persino concerti, e l’idea di un album che tornasse all’essenza della sua scrittura musicale, quella che lo aveva rivelato in album come In the Throes e High on Tulsa.

È facile il paragone ascoltando l’asciuttezza acustica e la malinconia dolciastra che accopagna le note di The Future Is Coming Fast, ballata che ha il compito di indicare la direzione dell’intero Visitor, una linea di confine sottile fra personale e sociale per cui i mali del mondo contemporaneo sono il riflesso dei nostri mali dell’anima, dove quello che non funziona intorno a noi è prima di tutto un’afflizione dell’anima che lo stesso John Moreland mette a nudo guardando dentro di sé. Questo percorso autarchico lo ha spinto inevitabilemente a suonare tutto da solo, eccezion fatta per la compagna Pearl Rachinsky presente ai cori di una frizzante e dall'impronta alla Tom Petty Ain’t Much I Can Do About It, e l’amico John Calvin Abney a ricamare note soliste nel binomio per chitarre acustiche di un toccante quadretto rootsy intitolato con lungimiranza The More You Say, The Less It Means.

Inciso nell’arco di una decina di giorni nella sua casa di Bixby, Oklahoma, con un paio di intermezzi strumentali e la scarna Silver Sliver catturati addirittura “into the wild” con l’ausilio di un registratore portatile, Visitor è il ritorno del figliol prodigio della canzone Americana, quel talento che avevamo intravisto e celebrato in una serie crescente di lavori e che ci era sembrato un po’ smarrito, tra le nebbie di una fredda elettronica applicata alle sue aspre basi country-folk, nel precedente Birds in the Ceiling. È lo stesso Moreland a descrivere Visitor come un'inevitabile reazione contraria: dall’alienazione e da una certo distacco sonoro che trasmetteva il predecessore, siamo passati al candido tepore di queste ballate elettro-acustiche, che pascolano nella quiete cercata e voluta dall’autore. Un itinerario sonoro e umano a tu per tu con le sue confessioni, qui spesso disarmanti, come simboleggia proprio la title track posta in chiusura, via dalle false lusinghe, per dichiarare “I am a visitor/ On this lonely earth, I am a visitor/ Well I don't need much/ But a healing touch".

Ne emergono versi che sono piccole rivelazioni filosofiche sull’esistenza e anche la dimostrazione di un songwriter di vecchio stampo, con l’armonica che aggiunge un sapore agrodolce all’intimità di Gentle Violence, mentre Will The Heavens Catch Us? è un miracolo di docili sussulti nel dialogo fra il mandolino e la chitarra elettrica dagli accenti twang, Blue Dream Carolina un’invocazione ad occhi aperti per ritrovare il senso del suo essere songwriter, che soffia una brezza folk elettrificata dallo sconfinato heartland americano, e One Man Holds The World Hostage sembra inifne caricarsi del dolore dell’uomo, in quel parallelo fra singolo e comunità, attraverso una luminosa ballata che entra di filato tra le migliori del canzoniere di Moreland.

La delicatezza con la quale l'autore ci offre le sue visioni da “eremita” dell’american music, atteggiamento per nulla costruito a tavolino, è la cifra stilistica di una raccolta che si insinua con tutta quella spontanea trasparenza e semplicità che John Moreland ha inseguito e ottenuto da queste registrazioni. 

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