The Hard Quartet - The Hard Quartet (2024)

 di Antonio Pancamo Puglia

Con i Jicks ormai archiviati e i Pavement resuscitati a tempo indeterminato – ? – come il più glorioso dei legacy act in circolazione (com’era giusto che fosse), il caro vecchio Stephen Malkmus trova oggi un nuovo veicolo per la sua creatività, rimettendosi in gioco con un nuovo set di musicisti.

E che musicisti: The Hard Quartet – la consueta ironia è evidente sin dal nome – lo vede accompagnato dai veterani Matt Sweeney (affermato chitarrista e sideman, attivo nei Chavez, nel progetto Superwolf e in una miriade di collaborazioni eccellenti), Emmett Kelly (forza primaria dietro il power pop d’autore dei Cairo Gang e sodale di Bonnie “Prince” Billy e Ty Segall) e il superbatterista Jim White (reduce dall’eccellente progetto avant-jazz Beings nonché dalla rimpatriata su disco dei suoi Dirty Three). Per quanto la star del lotto sia indubbiamente lui, l’immarcescibile silent kid, il quartetto conta su ben tre songwriter e cantanti: in fase promozionale, si è dunque molto insistito, forse per non far pesare troppo il suo nome, su una collaborazione alla pari ricca di sorprese, nella migliore tradizione dei supergruppi.

Di conseguenza, nelle settimane precedenti l’uscita sono usciti tre singoli, ciascuno con un vocalist/autore diverso: se Earth Hater è una composizione storta tipicamente Malkmus (si immaginino dei Jicks sottoposti a un trattamento decisamente “duro”, come da ragione sociale), Rio’s Song è una ballata ubriaca a cuore aperto, un classic rock intonato da Sweeney e contrappuntato da una classica chitarra pavementiana, mentre Our Hometown Boy mette in luce il talento melodico di Kelly in un classico power pop che brilla grazie anche al contributo originale e riconoscibile di ognuno degli strumentisti coinvolti, a partire dal drumming  jazz, erratico ed inconfondibile di White, fino a un insospettabile Stephen dirottato al basso (strumento a cui si alternano, su disco, tutti i componenti).

In realtà, con ben nove canzoni su quindici in scaletta, è la personalità artistica di quest’ultimo a dominare nettamente, sbilanciando le promesse iniziali di un lavoro equamente condiviso verso qualcosa che somiglia, spaventosamente, al più grande dei what if?: tacendo di un’iniziale Chrome Mess che strizza l’occhio ai Sonic Youth, sentite un po’ come suonano, per dirne un paio, Hey (o… Here?) e Heel Highway, e diteci se non sembrano prese di peso da Slanted & Enchanted, Wowee Zowee o Brighten The Corners. Tutto in quei brani suona esattamente come i Pavement, incluse le leggendarie accordature alternative, con i tre nuovi compagni di viaggio a fornire un accompagnamento ossequiosamente fedele allo spirito originario – vedi una Renegade che nella sua furia primitiva pare uscita da Slay Tracks e a cui mancano soltanto le urla dementi di Bob Nastanovich.

Certo, aver fatto pace col passato e suonare in giro le vecchie canzoni coi compagni di una volta, da ormai tre anni buoni, non può non avere inciso sul mood di questi nuovi (e molto ispirati, va detto) episodi malkmusiani, e quindi per un attimo – più di un attimo, ad esser sinceri – si fa viva l’illusione di come suonerebbe un nuovo disco dei Pavement, oggi. Se non un altro disco solista, come i non meno che buoni – e recenti – Sparkle Hard e Traditional Techniques (dove suonò, tra gli altri, proprio Sweeney): momenti come Six Deaf Rats (ballata cangiante di sei minuti che cita i Big Star di Stroke It Noel), Action For The Military Boys (suite in più parti tra i Jicks più proggy, l’epica balorda di Fight This Generation e i Silver Jews) ci confermano come la penna del Nostro, dentro e fuori dal gruppo (dai gruppi?), non abbia mai davvero ceduto e resti acuta, profonda e riconoscibile, offrendo sempre ottimo songwriting, per quanto familiare.

Il problema è che questo voleva comunque essere un album collettivo, e d’altronde sarebbe ingiusto sminuire il contributo degli altri membri, a partire da un Jim White che tiene tutto insieme alla sua unica maniera utilizzando la batteria nel modo più espressivo possibile (costruendo e decostruendo in modo molto poco “rock”, eppure riuscendo a rimanere miracolosamente solido), passando per un Matt Sweeney che, pur ridotto a spalla (ruolo comunque a cui è storicamente avvezzo: andate un po’ a vedere il suo curriculum, dagli Zwan di Billy Corgan – ironico, eh Stephen? – a Neil Diamond), offre altri buoni momenti da protagonista (le folky Killed By Death, Jacked Existence e It Suits You), fino a un Emmett Kelly che, silenzioso e versatile, gioca a fare il Doug Yule del lotto (sentite la sua altra composizione, North Of the Border) ma che, magari in prossime sortite, potrebbe legittimamente aspirare a maggiore tempo sotto i riflettori.

Sfortunatamente, al netto di un suono essenziale e live che lascia emergere i rispettivi talenti e innegabili urgenza ed entusiasmo, la somma delle parti non riesce ad essere più forte delle singole personalità (unica eccezione, la summenzionata Rio’s Song, vetta del disco e uno dei brani dell’anno, per chi scrive). Detto altrimenti, questo pur buon esordio non riesce né ad essere un nuovo, ottimo disco di Malkmus né il vero lavoro di una vera band. Che comunque c’è, e se dovesse ripresentarsi con più amalgama e forze riequilibrate, ne saremo decisamente contenti.

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