The Cure – Songs of a Lost World (2024)

di Maurizio Ermisino 

 “This is the end of every song that we sing” “Questa è la fine di ogni canzone che cantiamo”. Inizia così Alone, e inizia così Songs Of A Lost World, il nuovo, attesissimo album dei Cure, il primo dopo un silenzio (discografico) di 16 anni. Sembrano parole di commiato, quelle di un possibile addio, quelle di un ultimo disco. Ma non crediamo sia così. I Cure di Robert Smith sono vivi e vegeti, sono una band che ha fatto la storia del rock, ma che oggi non profuma solo di passato e di ricordi, ma dimostra di saper stare alla grande nel mondo musicale contemporaneo. Certo, alla maniera loro. I Cure tornano con un album di otto canzoni, alcune di sette minuti, e con un pezzo finale da 10 minuti, in un’era in cui Tik Tok e Spotify chiedono canzoni da 3. Mentre oggi in ogni brano il ritornello deve arrivare entro 30 secondi, la voce di Robert Smith entra dopo 3 minuti, nel pezzo finale addirittura dopo 6. Le nuove canzoni dei Cure non hanno fretta di essere ascoltate, di essere consumate: vogliono prendersi il loro tempo, decantare, e restare nel tempo. Robert Smith è ancora uno, forse l’unico, che cerca di tenere a bada i prezzi dei biglietti dei concerti, oggi impazziti. “Non abbiamo bisogno di fare tutti quei soldi. Le discussioni che ho fatto con l’etichetta sono tutte relative a come tenere i prezzi bassi”.

Songs Of A Lost World, “canzoni di un mondo perduto”, è un titolo da finale di partita. Ma ascoltandole, senti che queste canzoni non sono quelle di una band che vuole dire addio. C’è un momento, in quel bellissimo film che è Sing Street di John Carney, in cui si parla dei Cure. Vengono definiti “happysad”, “felicitristi”, ed è un modo perfetto per definire quella che è stata la loro musica in questi anni. In Songs Of A Lost World la bilancia pende decisamente dalla parte della tristezza. Tanto che l’album doveva essere ancora diverso, ma qualcuno ha detto a Robert Smith “non puoi mettere questa tristezza tutta insieme”. E così ha modificato qualcosa, ha tolto alcune canzoni e ne ha aggiunte altre più potenti. Il risultato è un disco sinfonico, imponente, monumentale, che segue la linea di Disintegration (1989) e Bloodflowers (2000). Non ci sono i toni più leggeri, le canzoni pop, gli hit single. Anche se A Fragile Thing, il secondo singolo estratto, è davvero un pezzo che rimane impresso.

Alone è la canzone che ha dato il via a tutto il progetto. È l’apertura sinfonica ed enfatica che detta la linea a tutto il disco: tappeti di tastiere e di pianoforte, e la voce di Robert Smith che entra dopo tre minuti. È una canzone nata durante una passeggiata in un bosco, e dalle parole del poeta Ernest Dowson (“Con occhi pallidi e indifferenti, ci sediamo e aspettiamo Il sipario calato e il cancello che si chiude: questa è la fine di tutte le canzoni che l'uomo canta”). And Nothing Is Forever, sostenuta dal piano e dagli archi, nasce dalla promessa, mai mantenuta, che Smith fece a una persona, di starle vicino nel momento della morte. Questa canzone è il modo di farlo adesso. È una canzone che evoca sentimenti di malinconia, ma anche di serenità. “And I know, I know for my world has grown old and nothing is forever” (“Lo so, lo so che il mio mondo è invecchiato e niente è per sempre”) canta Smith.

A Fragile Thing è un brano più duro, scandito dal piano e dal basso di Simon Gallup, con chitarre e batteria che dettano un ritmo più sostenuto, prima di un assolo di chitarra. “A Fragile Thing è una canzone ispirata alle difficoltà che incontriamo nello scegliere tra esigenze che si escludono a vicenda e da come affrontiamo il futile rimpianto che può seguire queste scelte, per quanto siamo sicuri di aver fatto le scelte giuste... spesso può essere molto difficile essere la persona che si ha davvero bisogno di essere” ha spiegato il leader dei Cure. “”Every time you kiss me, I could cry she said, Don’t tell me how you miss me I could die tonight of a broken heart” (“Ogni volta che mi baci, potrei piangere, ha detto. Non dirmi quanto ti manco, potrei morire stanotte di crepacuore”) canta Robert Smith. La sua voce è inconfondibile: ha segnato una band, un’epoca, un genere. Ed è ancora tra noi.

Un suono cupo, quello di un organo, introduce Warsong, che è un primo cambio d’atmosfera nel disco. Si parla di guerre intime, personali, per arrivare alla guerra vera e propria, che è evocata dai suoni: chitarre distorte e batterie deflagrano come bombe. La voce è acuta, dolente, disincantata, arrabbiata. Warsong è un paesaggio-stato d’animo. E la sensazione di disagio continua con la successiva Drone: Nodrone, una canzone che nasce dalla rabbia di Robert Smith nell’aver visto volare un drone sopra la sua proprietà ed aver visto violata la sua privacy: chitarre distorte e distorsioni elettroniche si muovono su una ritmica marziale, in quello che, dietro ai travestimenti, è puro rock’n’roll.

I toni si fanno di nuovo distesi e pacati con I Can Never Say Goodbye, scandita dal piano, con le chitarre (di Reeves Gabrels, storico musicista di David Bowie da tempo con i Cure), in secondo piano ma ben presenti. È dedicata al fratello di Robert Smith, scomparso di recente. I riff di chitarre si fondono con i sintetizzatori in All I Ever Am. È una canzone catartica, quella che definiremmo una feel good song, ma ovviamente suonata alla maniera dei Cure. È arrivati alla fine che si capisce il titolo dell’album. È il senso di venire da un'altra dimensione, è un suono inconfondibile che arriva da un altro mondo, quel mondo perduto di cui parla il titolo. È il mondo del post-punk, della new wave, del dark: Joy Division, Siouxsie And The Banshees. E i Cure, che quel mondo perduto hanno contribuito a crearlo. Questa storia finisce con Endsong, 10 minuti e 23 secondi di estasi e di solennità, quella che avevamo trovato in canzoni come Plainsong, da Disintegration. Sembra un brano strumentale, ma dopo sei minuti e mezzo arriva la voce di Robert Smith, prima che un lungo assolo chiuda la canzone. “It’s all gone, it’s all gone” canta Robert Smith. “È tutto andato”. Ma non i Cure. Una band che è qui per restare, che ha ancora molto da dire. Orgogliosamente fuori dal tempo. Dolcemente felice e triste, happysad.

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