Son of The Velvet Rat - Ghost Ranch (2024)
di Fabio Cerbone
Che una delle musiche americane dai tratti più sfuggenti e desertici che si possano ascoltare di recente provenga da un duo di origini austriache è già motivo di attrazione e curiosità, che i Son of the Velvet Rat lo stiano facendo da diverso tempo e meritino finalmente qualche attenzione maggiore rispetto alle “buone maniere” di molti colleghi, anche e soprattutto da parte di quel pubblico che segue certa roots music ammantata di sensibilità d’autore, sarebbe altrettanto legittimo. Ghost Ranch, a completare idealmente una sorta di trilogia nata ai confini del deserto californiano del Mojave, presso gli studi Red Barn del produttore Gar Robertson (già al lavoro sul precedente Solitary Company) situati nella Morongo Valley, è un’ulteriore prova di come Georg Altziebler e Heike Binder, coppia artistica e nella vita, abbiano assimilato fin nelle ossa linguaggio, strutture e fascino di certo folk rock dai tratti sabbiosi e dark, come annuncia l’armonica e l’incedere lunare di Bewildering Black & White Moments Captured On Tral Cams.
La voce sussurrata e dolcemente aspra di Georg, un po’ Leonard Cohen, un po’ Howe Gelb (Giant Sand), i controcanti diafani della moglie Heike, lo scheletrico impianto acustico delle loro ballate, via via arricchite di sfumature cinematografiche ed echi western noir, sono la quintessanza di uno stile che è maturato nei dieci anni in cui i Son of the Velvet Rat (destabilizzante e insolito anche il nome della band) hanno frequentato e vissuto nella comunità di Joshua Tree, luogo che occupa un posto speciale nella mitologia dell’american music e al quale si sono rivolti dopo una prima parte di carriera svoltasi in terra austriaca. E proprio all’incrocio fra eleganza mittleuropea e scrittura folk americana si sviluppano queste canzoni dal senso misterioso ed “eterno”, riflesso anche nelle parole e nel canto di Georg Altziebler, unico autore e centro di gravità dei Son of the Velvet Rat, con le sue liriche sospese tra luci e ombre.
Se a ciò aggiungete la capacità del duo di avere stretto una salda collaborazione con alcuni dei musicisti più importanti delle scena californiana, dalla produzione passata di Joe Henry (per l’album Dorado del 2017) alle presenze attuali in Ghost Ranch di Jay Bellerose (batteria, spesso anche “trattata” con un beat più metallico e moderno) e Jennifer Condos (basso), ma soprattutto di un nome inattaccabile come quello di Marc Ribot (chitarre), avrete restituito l’arcano insito in languide ballate quali Are the Angels Pretty? e Deeper Shade of Blue, nelle quali una fragile dolcezza è sottolineata dalla presenza dell’ospite Jolie Holland ai cori, mentre Beautiful Day si carica di una tensione rock dai tratti psichedelici, dilatati e polverosi, qui davvero a disegnare immagini dal desetto del Mojave, anche in una Kindness of the Moon screziata dagli interventi di violino e lap steel, che ricorda i migliori Cowboy Junkies.
Insistendo su un suono “western americana” spaziale e rarefatto (Rosary, oppure la luminosa melodia di Southbound Plane, colorata dall’organo di Tony Patler), sull’alternanza di vuoti e pieni, sull’esile intimità acustica del songwriting di Georg Altziebler (Golden Gate, New Frontier) Ghost Ranch ci guida in una terra di contrasti e di orizzonti infiniti, di fiori del deserto e bagliori distanti, fino a che il canto serale delle cicale (Cicadas, ultimo breve estratto in scaletta) non annuncia il calare del giorno e del viaggio dei Son of the Velvet Rat.
Commenti
Posta un commento