John Craigie with TK & The Holy Know-Nothings - Pagan Church (2024)
di Fabio Cerbone
La chiesa pagana della quale ci invita idealmente a varcare la soglia il buon John Craigie è di quelle che ti lusingano con ritmi e musiche che coinvolgono corpo e anima, e tu rimani fregato. Molto più concretamente, quella stessa chiesa si indentifica con la Laurelthirst Public House, locale di Portland davanti al quale Craigie è ritratto insieme alla band in copertina, sancendo una sorta di legame comunitario con un luogo che risulta una piccola oasi di salvezza per i musicisti e la scena roots cittadina. Il gruppo che affianca questo interessante songwriter di origini californiene, già messosi in evidenza da queste parti nel 2020 con Asterisk the Universe, è quello dei TK & The Holy Know-Nothings, piccola istituzione di Portland in fatto di sonorità country d’annata e contaminazioni tra honky tonk, soul e rock.
L’incontro, avvenuto negli studi di questi ultimi, un vecchio complesso scolastico convertito in sala di incisione, è una sorta di reazione opposta all’autarchia del precedente lavoro di Craigie, il più intimo (e anche parecchio inconcludente, va ammesso) Mermaid salt, a cui fa seguito invece la spontaneità e il suono “dal vivo” di Pagan Church. Chiunque nutra un debole per la linea musicale che unisce Nashville a Memphis, lì dove radici bianche e nere del rock’n’roll, espressionismo country e romantiscimo soul si intrecciano, con chitarre bluesate e ritmi impigriti un poco swamp e paludosi, allora drizzi le antenne e segua l'ondeggiare di un album che si apre sulle vibrazioni roots settantesche di Damn My Love e si conclude con la languide carezze della stessa Pagan Church, sorta di brano manifesto nel titolo e nelle liriche, puntando tutto sulla gioia di condividere insieme un pezzo di american music, calcando ora sulle dinamiche del boogie, ora sui tratti più riflessivi di un autore che resta pur sempre un narratore dei sentimenti.
La voce di Craigie ha il tono “svogliato” e poco appariscente che serve a verniciare queste undici canzoni di quei colori tipicamente southern e indolenti nati alla scuola di JJ Cale, Tony Joe White o del dimanticato Bobby Charles, mentre TK & The Holy Know-Nothings masticano la materia senza fuochi pirotecnici, piuttosto badando all’anima più recondita del groove, come insegnavano i maestri. Ne sono una prova inconfutabile il pencolare blues imbambolato di California Sober e l’andatura swamp tutta a bassi palpiti di Grand Junction, così come il pulsare essenziale di Judas.
E allora, tra un sonnolento rock’n’roll che si impenna nel finale con l’ingresso dei fiati di derivazione New Orleans (Walking Guilty), come sarebbe piaciuto tanto a Dr. John, e ballate che blandiscono l’ascolto con afflato country soul (la riuscitissima Good to You), Pagan Church rinnega fin nelle ossa le sue origini da costa del Pacifico, e dalla cosmopolita Portland si immerge in strade rurali e vecchie statali che finiscono dritte tra il Tennessee e il Mississippi, tra il tono raccolto di episodi quali Where It’s From e Sandra, che per l’ennesima volta ci ricordano il lascito enorme di John Prine sulle nuove generazioni di autori Americana, e le bizze boogie rock di Viking Sex e While I’m Down, roba che da anni attendiamo invano che torni a rivangare uno come Todd Snider.
Ci hanno pensato John Craigie e la sua combriccola di “adoratori pagani”: l’intesa strumentale e diremmo quasi di sentimenti con TK & The Holy Know-Nothings è l’espressione di un album che ha nella sua peculiare andatura ritmica, nei giri bassi e costanti del suo motore, la semplice soluzione per farsi apprezzare.
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