JJ Grey & Mofro - Olustee (2024)

di Nicola Gervasini 

Non sarebbe facile spiegare al pubblico italiano, anche quello più musicofilo, perché noi di Rootshighway abbiamo patito non poco per la lunga assenza discografica di JJ Grey & Mofro. Innanzitutto perché probabilmente dovremmo anche prima spiegare di chi diavolo stiamo parlando, visto che, sebbene il combo di Jacksonville, Florida sia nato prima del 2000, ad oggi la sua popolarità è parecchio limitata agli ambiti della scena post-Jam-bands, categoria a cui subito furono associati fin dal primo album Blackwater (che ancora usciva con la semplice sigla Mofro). E dovremmo spiegare come mai se su quella scena abbiamo un po’ mollato il colpo anche noi in quanto ad attenzione mediatica, perché riteniamo abbia generalmente esaurito la propria carica creativa (sebbene in USA resti un fenomeno ancora più che vivo dal punto di vista dei riscontri di pubblico presente ai concerti), loro invece non hanno mai smesso di suscitare la nostra più piena ammirazione, se non proprio entusiasmo.

E questo nonostante si portino nel DNA il difetto di fondo di molte jam-bands nate nei 90, e cioè una scarsa originalità nel fare un gran minestrone di generi e influenze. Non c’è infatti nulla di straordinariamente nuovo nel mix di southern–rock, soul e funky-music che hanno portato in alto nelle nostre classifiche dischi come Country Ghetto (2007) o This River (2013), sempre pubblicati per la storica etichetta di Chicago, Alligator records, che li ha riaccolti in questa occasione; c’è però un suono splendido, positivamente condizionato dall’uso dei fiati, una voce adatta al genere (il leader JJ Grey), e un pugno di canzoni che, seppur non scevre di citazionismi e pesanti debiti col passato, suonano fresche e convincenti.

Dopo nove anni di pausa da Ol Glory (2015), Olustee (nome di un piccolo centro abitato dove nel 1864 venne combattuta una delle più sanguinarie e decisive battaglie della Guerra Civile Americana) paradossalmente sembra voler spiazzare con l’iniziale The Sea, maestosa soul-ballad immersa negli archi che paiono un ingrediente nuovo al loro menu, ma è solo un diversivo che significativamente verrà ripetuto col simile finale di Deeper Than Belief. Tra i due brani è festa di ritmi, suoni del sud, chitarre ancor più in evidenza del solito (da mettere in repeat la title-track per puro godimento d’udito), brani ancora più semplici e diretti persino negli ermetici titoli (Rooster, Wonderland, ecc..). Il cuore di Olustee è un disco che riparte esattamente da dove si erano fermati, con nuovi brani da mettere in una ideale compilation per un viaggio da “On the Road” (Seminole Wind, Top Of The World), e accorate soul-ballads col santino di Otis Redding nella tasca (On A Breeze, Starry Night, Waiting), ma, soprattutto, con l’ennesimo rammarico di avere poche speranze di riuscire a portare in Italia un gruppo così numeroso, che non avrebbe senso ascoltare in forma ridotta, e oltretutto con scarse possibilità di conquistare tanti cuori tra i nostri conterranei che questa musica, siamo convinti a torto, la danno ormai per scontata. E’ proprio il caso di dirlo: bentornati. 

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