Bill Ryder Jones - Lechyd Da (2024)
I Coral sono da più di vent’anni una di quelle band che tutti in qualche modo apprezzano, anche se poi, chissà perché, non scatenano mai gli entusiasmi che meriterebbero, nonostante il recente Sea of Mirrors, ma soprattutto il corposo Coral Island del 2021, siano tra i dischi più interessanti usciti in questi anni Venti. Qualche vecchio fan però sostiene che qualcosa si fosse irrimediabilmente rotto nel 2008, quando il chitarrista Bill Ryder-Jones abbandonò il gruppo, che lui stesso aveva fondato, dopo solo cinque album. La storia dice che la sua carriera solista non ha avuto gli stessi onori di quella della band, la quale ha continuato senza di lui come nulla fosse, anche se A Bad Wind Blows in My Heart del 2013 andrebbe recuperato, ma forse una piccola svolta potrebbe arrivare da questo Iechyd Da. Che è un disco che si distingue più che altro perché, in un era di home-record e facili scappatoie nell’elettronica per ovviare all’impossibilità di una antica ma costosa session in uno studio di registrazione, si presenta invece come una sontuosa operazione produttiva, dove non ci si fa mancare nulla tra fiati, archi, cori, e chi più ne ha, più ne metta.
Lui stesso ha presentato l’album sottolineando quanto sia fiero degli arrangiamenti, il che potrebbe lasciare le canzoni in secondo piano, ma ovviamente non è così. Partiamo dal presupposto che Ryde-Jones (ma anche i Coral, in fondo) non ha paura di essere accusato di “retromania”, anzi, ci sguazza con gran piacere fin dal primo brano I Know That It's Like This (Baby) che non ha timore di mischiare l’incedere e i cori da Velvet Undeground e un sample di Baby di Cateano Veloso (la voce di Gal Costa si riconosce subito). Oppure di iniziare If Tomorrow Starts Without Me con lo stesso giro di archi di Street Hassle di Lou Reed, anche se il brano viaggia per altri lidi stilistici nel prosieguo. E se in alcuni casi lavora anche per sottrazione (l’indie-folk alla Belle And Sebastian di I Hold Something In My Hand o la piano-song A Bad Wind Blows in My Heart Pt. 3), il resto si fa notare per i muri di suono, in cui persino il coro di fanciulli della Bidston Avenue School Choir che affiora in We Don't Need Them e in altri episodi, concorre al buon risultato, senza ingolfare il meccanismo.
La sua vocalità bassa e laconica, e la sua ossessione per gli arrangiamenti, me lo fa avvicinare al Lee Hazlewood più coraggioso, anche se il suo sangue britannico si sente parecchio in alcuni episodi come una This Can’t Go On che sarebbe piaciuta ai Pulp. C’è tanta materia da analizzare e discutere qui, dai crescendo orchestrali che caratterizzano molti brani come How Beautiful I Am o Thankfully For Anthony, a qualche breve intermezzo utile a stemperare una tensione degna del migliore Bill Fay come …And the Sea... o Nos Da (piccola lezione di gallese, Nos Da vuol dire “Buonanotte”, Iechyd Da “Buona Salute”). C’è però da notare che sotto tanti suoni si celano delle belle canzoni, scritte con l’amore per quel cantautorato oscuro e sotterraneo dei primi anni Settanta. Non è nuovo nella sostanza, ma lo è nella realizzazione questo album, e potrebbe aprire una nuova fase di ritrovato gusto per la costruzione di una registrazione, la stessa che Bill Ryder-Jones aveva già dimostrato producendo lo splendido Dear Scott di Michael Head ad esempio. O, perlomeno, prendiamolo come un disperato tentativo di far sopravvivere l’arte sempre più sorpassata della produzione.
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