The Smile - Cutouts (2024)

 di Giovanni Davoli

Possiamo anche smettere d’invocare il ritorno dei Radiohead. Che poi torneranno pure, almeno finché Yorke e Greenwood stanno così a palla e ispirati. E sarò curioso di vedere cosa un loro nuovo disco ci porterà che non ci abbiano già portato tre dischi dei The Smile negli ultimi 29 mesi. Recensendo il precedente “Wall of Eyes” mi spingevo a dire che la band è la “più importante di questi anni ’20”. Quel che non ha mancato di suscitare l’ironia di qualche “collega” che li ritiene sopravvalutati. Mentre sono felice di essere letto da chi ha la mia stessa ossessione per le parole applicate alla musica, non starò certo a replicare. Alla fine, queste parole che verghiamo per descrivere ciò che amiamo sono soggettive, come ogni parola d’amore. 

E io non riesco a non amare anche The Smile oltre a, ovviamente, i Radiohead. E’ un piacere sentire i nostri due geniacci così a loro agio in questo nuovo outfit. Accompagnati soltanto (si fa per dire) da Tom Skinner, uno dei migliori batteristi in circolazione. Che in alcune tracce fa un passo indietro e rimane in sottofondo (Foreign Spies), o addirittura scompare (Tiptoe), mentre in altre guida con decisione la musica (Zero Sum) fino a dominare la scena (The Slip).

Cosa c’è di musicalmente nuovo in “Cutouts”, chiederete voi. La domanda è legittima, visto che la cifra è sempre quella che ha reso gloriosa la ditta Yorke–Greeenwood. E addirittura, come anche con il precedente album, si sentono echi beatlesiani (Instant Psalm). O “progressive”: No Words sembra uscita da un disco di Steven Wilson, a conforto di chi sostiene che The Smile siano la versione “progressive” dei Radiohead. In Colours Fly, Greenwood ci regala un riff che evoca le sue recenti collaborazioni medio-orientali. Quindi, cosa c’è di nuovo? Non saprei rispondervi. Vi chiederei però di dirmi dove altro potete ascoltare questa perfetta miscela di sperimentazione e accessibilità. Questa via di mezzo inedita tra l’inascoltabile e l’orecchiabile.

Un paio di esempi. In Eyes & Mouth la chitarra esegue uno dei soliti arabeschi di Greenwood che qui ricorda i King Crimson (parlando di “prog”). Ma tutto si sostiene su un ritmo in levare che esalta le doti di Skinner, mentre Yorke suggerisce cose: “Attraverso il vetro / Guardati / Solo occhi e bocca / Dicendo solo parole / E poi rigirandole / Non importa quale sia la situazione / Dicendo a te stesso che questo non è nessun luogo”. Invece, Don’t Get me Started si fonda su una tastiera distorta e pesante. “Non sono l’assassino / Non farmi iniziare / Non sono il cattivo / Scegli qualcun altro / Non te lo consento”, canta Yorke e dopo un paio di minuti viene raggiunto da percussioni tribali e martellanti, mentre le tastiere si fanno prima minacciose, poi eteree e infine epiche. 

Soltanto 10 tracce per 44 minuti, come ai tempi dei Beatles appunto. In “questi anni ’20”, streaming e tecnologie consentono agli artisti di rilasciare ogni scoreggia musicale che gli passa in testa allungando a dismisura i loro sempre più lunghi “long-playing”. Non è certo il caso di “Cutouts”: 10 “ritagli” di perfetto “art-rock” per il disco più bello rilasciato finora dalla “band più importante di questi anni ’20”. E io felice se di fronte a cotanta affermazione qualcuno alzerà la mano per dire che no, è una gran palla, anche peggio che i precedenti.

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