Genesis - The Lamb Lies Down On Broadway (1974)

Quando si parla di dischi dove davvero si sente quanto siano bravi i musicisti, non si può non pensare all’epopea del progressive (che come quelli che mi sopportano in questa rubrica da più tempo sanno, sia uno dei miei pallini musicali). Il prog, che vorrei sottolineare è una definizione che negli anni è diventata sempre meno descrittiva e precisa, ma che per consuetudine e anche affetto si continua ad usare, è stato il primo e significativo della gioventù europea di creare musica pop fuori dallo schema del blues americano d’importazione. Sembra un particolare secondario, ma è fondamentale, come lo è l’estrazione sociale dei protagonisti: tutti baby boomer (termine che vuol dire la prima generazione nata dopo la guerra, non il sarcastico e odioso epiteto di oggi contro chi non è “giovane”), sospinti dalla crescita economica e, particolare importantissimo, la prima generazione che fa musica studiando a livelli superiori; quasi tutti i grandi gruppi progressive sono formati da ragazzi laureati, spesso in materie scientifiche (l’esempio più famoso è Brian May, laureato con lode in Astrofisica, ma ricordo anche i componenti dei mitici Van Der Graaf Generator tutti dottori in materie scientifiche). Tutto questo portò ad un approccio molto serio e tecnico alla musica, e al netto delle preferenze personali i capolavori del prog sono tutti dischi suonati magistralmente, e potrebbero essere tutti citati in questo mese. Aggiungo, in primis, disseminati nei post di questa ve ne sono tanti, e in secundis per celebrare degnamente i dischi stato dell’arte ho scelto uno dei più famosi dischi prog, capolavoro di una delle band leggenda del movimento.

I Genesis sono stati i principi del progressive, una dei gruppi mitici di quel periodo. Eppure l’inizio fu tutt’altro che promettente: dopo una scrittura per la Decca e due singoli, esce From Genesis To Revelation (1969), che ha così poco successo che tutti i membri della band, Peter Gabriel, Tony Banks, Chris Steward, Anthony Phillis e Michael Rutherford tornano a fare gli studenti universitari. Fu però l’intuito di un grande discografico, Tony Strattor-Smith, che fondò la Charisma, la casa discografica motore del prog, a intuire il potenziale: entra a fare patte della band John Mayhewm con cui registrano Trespass (1970), che sebbene non ha vendite confortanti è apprezzato e ha il primo, grande brano, The Knife. Ma il meglio deve ancora venire: Mayhew se ne va con Phillips, e tramite un annuncio sulla famosissima rivista Melody Maker, vengono scelti due nuovi musicisti, Steve Hackett alla chitarra e Phil Collins alla batteria. Nasce qui la line up leggendaria, e piano piano inizierà a prendere forma il loro mondo di testi colti, ironici e surreali, con tanti riferimenti letterari e alla mitologia non solo classica ma anche del folklore locale, una musica maestosa e a tratti magicamente ipnotizzante con largo uso di tastiere e sintetizzatori, creando o anticipando stili futuri, tipo il rock sinfonico. Nursery Crime, Foxtrot, Selling England By The Pound sono i primi tre capitoli di una tetralogia magnifica di capolavori che impongono lo stile musicale del gruppo ma anche l’istrionismo di Gabriel, cantante superbo, e da ricordare soprattutto che fu il primo ad introdurre l’aspetto teatrale e scenografico nei concerti, usando travestimenti, trucchi in volto, caratterizzando la voce dei vari personaggi delle canzoni. Il disco di oggi è l’apoteosi di questo concetto, un disco che è molto di più di Gabriel che dei Genesis, nella stessa misura di The Wall disco di Roger Waters che dei Pink Floyd.

The Lamb Lies Down On Broadway, che esce nel 1974, è il primo, e unico, concept album dei Genesis. Racconta la storia di Rael (anagramma di Real, reale, ma anche parziale di Gabriel), un ragazzo portoricano fuggito dall’orfanotrofio di Pontiac che va a New York a scrivere graffiti, unica forma per esprimere i suoi sentimenti. Camminando per Broadway, Rael si imbatte in un agnello sdraiato fra i vapori dei riscaldamenti sotterranei, che si trasformano in una nebbia che lo trasporta in un'altra dimensione spazio-temporale, quasi interamente ambientata sottoterra. Qui troverà mostri mitologici, uomini mezzi rettili, personaggi grotteschi, ma troverà anche suo fratello John. Proprio per salvare la vita di John, al culmine della storia, Rael rinuncerà a tornare nella sua Manhattan, magicamente riapparsa oltre una finestra nella roccia, per gettarsi fra le rapide di un fiume. Subito dopo il salvataggio tuttavia Rael si accorge sgomento che John ha assunto le sue stesse sembianze, rivelandosi di fatto una proiezione del suo io, e appena capito cosa sta per succedere immediatamente dopo i "due Rael" scompaiono in una misteriosa foschia purpurea assieme a tutta la scena e alla storia stessa. Non esiste un brano “killer” come ci sono stati in altri lavori precedenti, ma basta il brano omonimo che apre il disco, che raccoglie come una ouverture di musica classica tutti i temi del disco ( il doppio LP dura oltre 90 minuti), la dolcezza di Hairless Heart o The Carpet Crawlers, o la forza di In The Cage o di Counting Out Time per decretare questo disco di una tale ricchezza di spunti, sia lirici che sonori, da dare il capogiro. La storia di Rael è l’ennesimo, e più sofisticato, tentativo di Peter Gabriel di critica al consumismo, alla imminente globalizzazione, agli idoli fallaci di un mondo dove i confini tra illusione e realtà sono sempre più fittizi, dove essere e apparire si fondono perdendo di contorno e significato, e molto più di altre occasioni c’è una dimensione personale di racconto emozionale per dar forma a temi che riguardano la sua interiorità, come il rapporto col sesso (The Lamia, The Colony Of Slippermen), con la paura o con la morte (Anyway, Here Comes The Supernatural Anaesthetist), visti con gli occhi di Rael. E se per qualcuno c’è il dubbio, in It, misterioso e sarcastico brano di chiusura, Gabriel canta “Se pensi che sia pretenzioso, sei stato preso per un viaggio\Guarda attraverso lo specchio figliolo, prima di scegliere, decidi” e finisce con “it's only knock and know-all, but I like it", che storpia il titolo di It's Only Rock 'n Roll (But I Like It), degli Stones, traducibile pressappoco: «criticare e [fare il] saccente su tutto», quasi a profetizzare le future critiche delle riviste musicali al lavoro, accusato di essere uno spaccato di megalomania, per la storia così complicata (che ha, per essere precisi, un finale aperto, come a sospettare un continuazione prevista). Gabriel dopo il tour successivo questa faticaccia se ne va, nel 1975, anche perché gli animi degli altri non vedevano bene il suo protagonismo. Ci sono le ultime tre cose da dire: i Genesis ne volevano fare un film con William Friednik, recentemente scomparso, ma non se ne fece mai niente; il disco fu accompagnato da 102 concerti, dove Gabriel cambiava vestito per decine di volte, ed è un peccato che non ne sia mai stato fatto un live come si deve; i Genesis, dopo l’addio di Gabriel, passano le redini a Phil Collins, che dopo la bufera del punk (che odiava la maestria del prog, a cui opposero i suoni viscerali e spesso sgangherati), specializzerà il gruppo in una sorta di pop d’autore, che regalerà risultati di vendita mai visti, soprattutto negli Stati Uniti, che ovviamente non capirono mai del tutto il prog. Ma il passaggio tra le due epoche equivale a passare in una strada dove prima sorgeva una cattedrale maestosa, tra le più grandiose di sempre per meraviglie, al cui posto adesso c’è una villetta in riva al mare, che accoglie l’ondeggio lento delle onde. Un cambiamento non da poco.

Commenti

E T I C H E T T E

Mostra di più