Bob Dylan - John Wesley Harding (1967)

Un’altra caratteristica che inconsciamente hanno le Storie di Musica è che ogni anno da quando è cominciata c’è un disco di Bob Dylan. Siccome nel 2022 Dylan festeggia molti traguardi (80 anni, 60 anni dalle prime registrazioni e altri), ho deciso di dedicare il mese di Dicembre a Storie dylaniane. Cercherò di essere originale, grazie anche alla mole immensa di materiale che sia Dylan sia i suoi ammiratori, una schiera gigantesca, gli ha tributato fino ad oggi. Ho deciso di iniziare da uno dei suoi dischi più misteriosi e affascinanti, che arriva dopo un periodo di riabilitazioni su cui sono nate le più strambe vicende. Tutto inizia nel 1966, quando dopo l’uscita di quel capolavoro infinito di Blonde On Blonde, ha un incidente motociclistico. Nessuno ha mai avuto una descrizione precisa di ciò che accadde, nè una foto, nè altre notizie, tanto è che su questo incidente si rincorrono le storie più interessanti (ed è curioso che una storia simile accadde per il presunto incidente stradale di Paul McCartney, con conseguente morte e sostituzione con un sosia). Anche per Dylan si parlò di gravissime ferite, e qualcuno disse che fosse morto. Altri addirittura che fosse morto e risorto. La cosa sicura è che si ritira in una villa a West Saugerties, vicino New York, a pochi km dal luogo dove qualche anno più tardi si terrà la tre giorni di Woodstock: lì allestisce un rudimentale studio di registrazione nel piano interrato. Lo raggiunge il gruppo canadese che lo aveva accompagnato nei tour precedente, che ha cambiato il nome in The Band, e inizia a scrivere e registrare una quantità enorme di materiale musicale. Quel materiale sarà una miniera d’oro per decine di artisti a cui Dylan regalerà brani, diventerà in parte il primo bootleg della storia, dal titolo immaginifico di The Great White Wonder e una parte verrà pubblicata ufficialmente nel 1975 come The Basement Tapes; solo nel 2014 per la storica collana de The Bootleg Series, verranno pubblicate tutte le registrazioni rintracciabili di quelle sessioni (il Volume 11, un box set di 6 cd da 6 ore e mezza di musica). Quello che salta evidente all’ascolto di quei brani è la svolta, l’ennesima, che Dylan fa alla sua musica: dopo aver elettrificato il folk e cambiato il rock con la somma triade di Bringin’ It All Back Home, Highway 61 Revisited e Blonde On Blonde (nel biennio magico 1965-1966), torna ad una musica per lo più acustica, caratterizzata da canzoni scarne e dirette, dove lavora molto sui testi. Infatti tra chi lo andò a trovare durante il riposo post incidente, ci fu Allen Ginsberg, il grande poeta della Beat Generation: fu con Ginsberg che Dylan discusse su come essere più diretto, più scarno, abbandonando per un periodo le torrenziali descrizioni dei suoi testi. Il disco che segna il suo ritorno è come un risveglio cauto dopo un dolore, un momento in cui Dylan cerca la ripresa: un disco che ha un fascino malinconico e umano altissimo, che svela un Dylan diverso e quasi più intimo. John Wesley Harding esce il 27 Dicembre del 1967: in verità doveva uscire il 17, ma non si sa come mai la distribuzione fu difficoltosa nelle prime due settimane, tanto è che le moderne versioni Cd del disco portano la data originale di rilascio alle stampe nel 1968; la Columbia tentò una qualche promozione, ma Dylan impedì alcun lancio pubblicitario e in pratica non pubblicò nemmeno un singolo per anticipare il disco. Si arrivò ad un compromesso, con Dylan che impose la copertina: una foto in bianco e nero con lui insieme ai fratelli Luxman e a Purna Das, musicista indiano che fu portato ad incontrare Dylan dal suo manager, Albert Grossman. Sulla copertina c’è una strana leggenda: nel tronco alle spalle dei 4 si potrebbero vedere i volti dei quattro Beatles, e secondo molto altri anche il segno di una mano su un altro albero, la mano di Gesù secondo questi osservatori, e sulla copertina c’è una storia scritta da Dylan su tre Re, che aggiunge particolari ai brani del disco. Nonostante tutto questo, il disco arriva al numero 2 negli Stati Uniti e al Numero i in Gran Bretagna, disco d’oro dopo poche settimane, e da allora ha una seguito di affetto da pubblico e critica notevolissimo. Dylan dedica il disco a John Wesley Hardin, famoso fuorilegge dell’800, con un brano omonimo che apre il disco: tuttavia c’è da dire, e non si sa il perchè, Dylan scrive male il nome dell’eroe popolare, Harding quando è Hardin, e questo errore rimane un ulteriore mistero su questo lavoro. Dylan canta, suona chitarra acustica, armonica e piano, ed ha i suoi fidati musicisti sessionisti accanto, Kenneth A. Buttrey alla batteria, Pete Drake seconda chitarra, anche pedal steel in alcuni brani e Charlie McCoy al basso. Le canzoni sono elegie profonde sulla confessione della colpa, come la storica I Dreamed I Saw St.Augustine, oppure sono esplorazioni poetiche sul concetto di grazia, come la meravigliosa As I Went Out One Morning, dal significato profondissimo e che è ispirata ad un lavoro di Auden, As I Walked Out One Evening. Dylan scrive di reietti, I Pity The Poor Immigrant (con echi di certi passaggi del Levitico), ne ha con Grossman, il suo manager, in Dear Landlord, si traveste da vagabondo in I Am A Lonesome Hobo, anche qui con echi biblici, dal libro del Genesi e di Caino e Abele; molti vedranno in tutti questi rimandi la partenza di quel percorso di conversione religiosa che diventerà maturo a metà anni ‘70, anche se è un po’ riduttivo secondo me, dato che anche nei primi lavori i miti biclici sono un punto centrale dei lavori di Dylan. Ammetto che qui abbondano, anche in The Wicked Messenger e in una intervista di quegli anni la mamma di Dylan, Betty, disse: nella sua casa di Woodstock, piena di zeppa, una gigantesca copia della Bibbia era sempre aperta nel suo studio, era il libro a cui dava maggiore attenzione. Una gemma poetica del disco è The Ballad Of Frankie Lee And Judas Priest: Lee chiede a Priest dei soldi, Priest accetta senza condizioni, Lee spende tutti i soldi in un bordello, e dopo 16 giorni muore di sete. Invito a leggere il testo, ricchissimo di significati e rimandi, che finisce così: Bè la morale di questa storia\la morale di questa canzone\è semplicemente che uno non dovrebbe mai stare\dove non si sente a casa\Perciò quando vedi il tuo vicino caricare qualcosa\aiutalo a portare il suo fardello\e non confondere più il Paradiso\con quella casa aldilà della strada. La band heavy metal inglese Judas Priest prenderà nome dal protagonista di questa ballad, Ma se c’è un brano che esprime al meglio l’idea di questo disco, è una canzone di poco più di 2 minuti, che parla di un giullare e di un ladro, che discutono su una strategia per uscire da una situazione spinosa. Il ladro, in uno dei passaggi più suggestivi della poetica dylaniana, dice: non c'è ragione di preoccuparsi (...) che ci sono molti tra di noi\che hanno la sensazione che la vita sia solo una burla\ma tu ed io l'abbiamo sperimentato\e non è questo il nostro destino\quindi adesso non diciamo fandonie\l'ora si sta facendo tarda. La canzone si chiude con la figura di due cavalieri che si avvicinano lungo i muri di guardia, preludio a chissà che cosa: All Along The Watchtower verrà notata da Jimi Hendrix, che qualche settimana più tardi dalla sua uscite ne farà una cover incendiaria e leggendaria, che verrà ritenuta superiore persino dallo stesso Dylan, probabilmente la cover più bella di tutta la storia del rock. E partendo da questo continueremo a raccontare della grande musica di Dylan, da chi l’ha reinterpretata.

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