Steve Wynn - Make It Right (2024)

 di Fabio Baietti

Una capacità di scrittura che ha pochi uguali nella storia del rock contemporaneo. Il pregio di aver rivestito le sue liriche con arrangiamenti che, sia nella dimensione del Syndacato che in quella solista, hanno acuito la loro visionarietà.

Steve Wynn, per una folta schiera di musicisti e fans, è, da più di 40 anni, una sorta di eroe musicale, un saldo punto di riferimento. Dopo aver ridato linfa vitale ai Dream Syndicate, gruppo faro di un certo modo di fare rock, ora il Nostro “riporta tutto a casa”! Alla soglia dei 65 anni, il rocker californiano fa il punto della sua carriera e, più in generale, della sua vita, tramite la contemporanea uscita di un libro di memorie (I Wouldn’t Say It If It Wasn’t True: A Memoir Of Life, Music, And The Dream Syndicate) e di un nuovo disco a suo nome, dopo 14 lunghi anni.

Make It Right non fa sconti, meglio chiarirlo subito. Non è un disco rilassante, pur non scevro di momenti di quiete, non induce al compiacimento ma stimola riflessioni. Prodotto di un intreccio tra la rielaborazione, in alcuni casi quasi spietata, delle proprie esperienze del passato, mischiato ad un’apertura di credito verso il futuro, quello del giorno dopo piuttosto che dei grandi progetti. Non un disco politico nell’accezione canonica, ma un prezioso bignami per non farsi travolgere dalla passività del quotidiano ed apprezzare la metà piena del bicchiere e da lì (ri)partire, day by day. (You’re Halfway There rende bene il concetto, la canzone più wynniana, anche musicalmente, del disco)

Il punto di partenza e quello di approdo dell’opera testimoniano il tipo di approccio alla tematica, in quanto uniscono, con una linea immaginaria, due luoghi fondamentali nella vita di Steve. Si inizia con Santa Monica, birthplace del figliol prodigo, il quale lancia uno sguardo disincantato al suo passato, alla sua personale colonna sonora di un’epoca che non può tornare. Il ritmo è serrato, pur nei solchi di una melodia che gli efficaci controcanti rendono mirabilmente catchy. Si finisce il metaforico viaggio nel melting pot, umano e culturale, di quella Roosevelt Avenue, nervoso cuore pulsante del Queens, di una NYC contraddittoria e non sempre accesa dalle luminarie di downtown. Il tempo concitato, degno del miglior rock urbano della Grande Mela, regala il miglior abito musicale alla canzone.

La titletrack ha un testo che vede mutare l’atteggiamento dalla negatività alla benevolenza, stati d’animo rivolti verso una vita spigolosa ma con ancora obiettivi da raggiungere. Una pedal steel si insinua ficcante a dettare la linea dopo un’intro acustica.

Un disco che, nelle liriche, trova linfa vitale nei contrasti, nel gioco di rimandi tra brandelli di profonda cupezza e aneliti di speranza, nei suoni, tramite il pregevole mix di atmosfere rilassate ed episodi di tensione elettrica, a volte acuita dalla voce filtrata di Wynn. Tra questi, la splendida What Were You Expecting, cupa e incalzante, grazie ad un basso pulsante, permeata di pessimismo cosmico (What were you expecting, in the city of sin. The house holds the cards, and the house always wins). Highest point assoluto del disco, a mio modesto parere.

Malinconie profonde e scatti di determinazione, patrimonio di un’umanità spesso smarrita su cui Steve Wynn posa uno sguardo meno duro di quanto potesse sembrare di primo acchito. Forse perché lo fa guardandosi allo specchio, ritrovando sul suo viso quelle contraddizioni che ognuno filtra secondo la propria sensibilità. Ecco allora il rock in salsa epica di Making Good On My Promises dare luce ai grigi rimpianti di Cherry Avenue e di quella Long Beach che non esiste più.

Per realizzare Make It Right, Wynn ha coinvolto sia amicizie di lunghissima data (Mike Mills, Stephen McCarthy, Vicki Peterson, tra le tante…) che musicisti di recente conoscenza, portatori di nuove sonorità e stili, utili ad un musicista sempre aperto alle sperimentazioni. Una squadra dalle spiccate personalità, diretta, alla consolle, da Eric “Roscoe” Ambel, da decenni garanzia di produzioni deluxe.

Un disco che, fin dal primo ascolto, passa di mano, ideale testimone tra la vita dell’Autore e la rielaborazione di quella di chi ascolta. Una sorta di botta e risposta, un This is my life, tell me yours (semicit.) che solo una persona da sempre profondamente in connessione con la sua audience poteva permettersi.

In fondo, come recentemente dichiarato da Steve Wynn: «stiamo tutti cercando di fare la cosa giusta». O no?…

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