La fidanzata rock d’America

Con la sua voce Linda Ronstadt ha aperto la strada ai cantautori di un’intera generazione

Linda Ronstadt, adorabile, molto ma molto carina, una voce così rotonda ed espressiva da poter cantare qualunque cosa, dal r’n’r al Great American Songbook, dalle canzoni tradizionali messicane all’Operetta (e l’ha fatto, in momenti diversi della sua lunga carriera) è stata sicuramente la voce femminile che ha dominato classifiche, riconoscimenti e tour negli anni ‘70.

La fidanzata (rock) d’America, e con poche rivali, in quegli anni. Difficile non volerle bene, lei così misurata, anti-diva, sempre concentrata nel tirar fuori da una canzone la sua parte più intensa, più romantica (o più verace, quando servisse). E il modo in cui ha scelto una per una le sue cover (di suo ne ha scritte due o tre in tutto), con un’attitudine simile alla nostra Fiorella Mannoia, ha aiutato non poco oscuri e semi-oscuri cantautori ad avere un po’ di attenzione e di spinta per le loro carriere soliste.

«L’eclettismo rampante è il mio nome di mezzo: è difficile far convivere quelle cose così diverse», ha detto una volta, spiegando perché sul suo “Greatest Hits” non ci fossero quelle canzoni pop o jazz dell’era pre-Beatles, arrangiate per Orchestra da Nelson Riddle (che aveva già lavorato per Sinatra), o magari “Canciones De Mi Padre”, il tributo alla musica che si ascoltava in famiglia.

Perché è lì che nasce tutto: «Se non l’ho ascoltata alla radio, se mio papà non l’ha suonata al piano, se mio fratello non la suonava alla chitarra o la cantava nel suo coro, o se non era mia madre o mia sorella che facevano le prove con un brano di Broadway o di Gilbert and Sullivan, allora non la posso fare oggi. È così. Tutte le mie influenze e la mia ecletticità sono il risultato della musica suonata in quel salotto a Tucson».

Aiutava, naturalmente, il fatto che nel suo sangue ci fosse quello dei quattro angoli del mondo occidentale. Il bisnonno paterno è un ingegnere di origine tedesca che nell’800 si sistema nel South-West quando è ancora appartenente al Messico, e sposa a Tucson (oggi Arizona) una messicana.

Lui e il nonno sono stati fra coloro che hanno creato il sistema di trasporti locale, gente influente e conosciuta. La mamma, a capo di un’azienda di costruzioni, viene dal profondo Nord, Michigan, e ha sangue tedesco, inglese ed olandese. È figlia di un inventore con 700 brevetti depositati, fra cui quel vassoio flessibile per fare il ghiaccio le cui royalties han portato in azienda milioni di dollari.

Alle canzoni di famiglia, quando cresce, aggiunge anche altre influenze: Edith Piaf e la messicana Lola Beltràn, Ella Fitzgerald e Billie Holiday, la adorata Maria Callas. E, soprattutto, la musica, molto varia, che ascolta alla radio negli anni ‘50 e ‘60. Comincia con fratello e sorella, “The Three Ronstads”, ma a 18 anni parte per Los Angeles, papà le dà 30 dollari e un consiglio: «Non farti mai fotografare svestita».

Unico contatto a L.A. è un vecchio amico, Bobby Kimmel, e insieme a un giovane cantautore, Kenny Edwards, mettono su un altro trio, gli Stone Poneys. I loro tre album fra il ‘67 e il ’68 sono folk-rock ante-litteram, ben accolti dalla critica e con un hit, “Different Drum”, scritto da Mike Nesmith prima che entrasse nei Monkees.

Quando il trio si scioglie, Linda inizia la sua carriera solista con “Hand Sown… Home Grown”, titolo organico se ce n’è uno, definito il primo album di alt country da parte di una donna. Infilandoci in mezzo una pubblicità di un rasoio elettrico insieme a Frank Zappa (vorrei veramente vederli), arriva poi “Silk Purse” («fare una borsetta di seta dalle orecchie di una scrofa» è come il nostro «cavare sangue da una rapa»), lei seduta in una porcilaia in mezzo a un paio di maiali (che roba girava, in quegli anni…).

Altro piccolo hit, una nomination ai Grammy come “migliore interpretazione country”, e poi un altro album prodotto dal boyfriend John Boylan, che contiene la prima di infinite cover degli autori losangelini, “Rock Me On The Water” di Jackson Browne.

La band che la accompagna in tour comprende Glenn Frey e Don Henley, arrivati in città – come migliaia di altri ragazzi – sull’eco della scena californiana aperta dai Buffalo Springfield, Crosby Stills Nash, i Byrds. Sta nascendo il country-rock che caratterizzerà il suono sulla Costa per tutta la decade.

Quando la mettono al corrente che vorrebbero mettere su una loro band, Linda è affettuosa e complice: non solo gli dà l’ok, ma suggerisce loro di chiamare un formidabile chitarrista country, Bernie Leadon, e per favorire l’incontro lo invita anche a suonare nel gruppo.

Poi si aggiungerà Randy Meisner e diventeranno ufficialmente Eagles, anche se tutti e quattro suoneranno “per lei” solo una volta. Ma l’album, tutt’altro che malvagio, vende poco, e si chiude il rapporto con la Capitol, la sua etichetta finora. Non sanno che errore stan facendo.

Nel 1971 è fra i primi artisti (J.D.Souther, Joni Mitchell e Glenn Frey) a firmare per la Asylum, l’etichetta losangelina per eccellenza, fondata da David Geffen ed Elliott Roberts, due agenti dell’agenzia William Morris che hanno deciso di iniziare una loro compagnia di booking e management.

Vanno da Ahmet Ertegun, boss della Atlantic, per convincerlo a mettere sotto contratto Jackson Browne: «Ti farà diventare ricco», gli dice Geffen. «David, sai che c’è? Sono già ricco, perché non ti fai la tua etichetta? Così avrai anche tu un sacco di soldi». Detto fatto. Con il finanziamento e profitti al 50/50, Geffen apre l’etichetta con la gabbia nel cielo, che diventerà per la musica west-coast e non solo “la” etichetta di riferimento, tanto quanto lo è già la Island sul territorio inglese.

Il primo album, “Don’t Cry Now”, 1973, non è però epocale, anche se contiene due canzoni che diventeranno capisaldi dei suoi live: “Desperado”, ovviamente degli Eagles, e “Love Has No Pride” di uno sconosciuto Eric Kaz.

È anche il periodo nel quale Linda impatta con la realtà dello show business. Time la definisce «una rarità che è sopravvissuta nelle profondità del rock infestate di squali». È una delle pochissime ragazze che stanno affrontando un mondo tipicamente maschile, essere la cantante di una r’n’r band di uomini non mette molto a suo agio: «Sono stata incoraggiata a prendere un’attitudine da dura perché il mondo del r’n’r è duro. Ma io non sono così».

Cita Janis Joplin, incoraggiata ad essere una “red hot mamma” quando in realtà era timida e vulnerabile. Il disagio cresce quando nella cover story di Rolling Stone Anne Liebovitz, la super-fotografa della rivista, le scatta una serie di foto in coquette rossa adagiata sul letto. Sexy, ma non è quello che vuole.

Il suo manager sbatte la Liebovitz fuori di casa con tutti i provini. La foto viene pubblicata, Linda poi spiegherà: «Annie vedeva quella foto come una rivelazione della mia personalità, e lo era. Ma io non sceglierei di mostrare una foto di quel genere a nessuno che non mi conoscesse personalmente, perché solo gli amici conoscono altri lati di me che la potrebbero bilanciare».

Insomma, quel che si chiama una brava figlia, memore del consiglio di papà. Nello stesso 1977 anche Time le fa una copertina col titolo Torchy Rock, rock bollente, seduta/sdraiata con un vestito rosso, e anche qui polemiche: «Quella posa e quel vestito, che il fotografo ha insistito che io mettessi, non mi rappresentano ed è una immagine che non voglio proiettare».

Peter Asher, suo manager e produttore, in un’intervista lo spiegherà meglio: «È una donna molto determinata in tutto, per me quello è il femminismo. Qualità che allora erano considerate negative in una donna, e al contrario ottime qualità in un uomo. Linda lottava duro per affermarsi come cantante nel mondo del rock, e quelle fotografie non aiutavano».

Peter Asher entra nel film quando la situazione in studio si è fatta difficile. Nel mondo di Hollywood e Laurel Canyon, una sorta di società a sé stante nella quale, come dire, le porte dell’hotel sono sempre molto girevoli, è complicato avere boyfriend che facciano un altro mestiere, che non siano del giro.

I “belli e impossibili” (nel senso di durata, soprattutto) sono tutto quel gruppo di autori e musicisti che stanno creando la scena della California del Sud. Si frequentano, si amano, si lasciano. Notorio è l’incrocio fra Linda, che esce, e Joni Mitchell che entra, a casa Souther, con la prima che la avverte del casino a cui sta andando incontro.

C’è molta materia per love songs romantiche e sofferenti, sicuro, ma parecchi cuori spezzati. Asher, che è il fratello di Jane Asher, la fidanzata storica di Paul McCartney anni ‘60, lavora come produttore e manager di Kate Taylor, sorella di James, che gli dà il nullaosta. Prende il timone nel 1973, e rimarrà con lei fino al termine degli anni ‘80.

Richiesto del segreto per cui sono rimasti insieme così tanto, dirà: «Dev’esser molto più difficile avere conversazioni oggettive sulla carriera di un artista quand’è qualcuna con cui dormi la notte».

Sotto la guida di Asher, tutto quello che già c’era, ma non a fuoco, diventa invece una formula perfetta. La Ronstadt – situazione davvero strana – ha ancora un album da incidere per la Capitol, e invece di dargli il solito live, o disco minore, i due si mettono al lavoro sul serio: non solo “Heart Like A Wheel” è considerato probabilmente il suo album migliore, ma è il modello sul quale sarà costruita tutta la sua carriera-superstar degli anni ‘70.

D’ora in poi, gli album di Linda saranno tutti un mix di oldies e di canzoni contemporanee, la chiave del successo sono gli arrangiamenti e la produzione di Asher, customizzati su ogni brano, che svariano dal solitario pianoforte e violino che accompagnano la title-track fino a rockers robusti, come quello che apre l’album: “You’re No Good”, sei un poco di buono (solita storia di lei che lo capisce troppo tardi), scritto da Clint Ballard Jr e che hanno già interpretato Dee-Dee Warwick (sorella di Dionne) e un’altra soul singer, Betty Everett (quella di “The Shoop Shoop Song”), sarà il modello per i suoi rockers mid-tempo (#1 istantaneo).

Per non sbagliarsi, la sequenza ne prevede anche uno in apertura di seconda facciata (sono album, ricordatelo!), è un hit degli Everly Brothers, “When Will I Be Loved” (altra scottatura amorosa… «Sono stata ingannata, e maltrattata, quando mai sarò amata?»).

Negli album successivi inserirà sempre un paio o più di pezzi up-tempo, soprattutto dopo che Jagger le dirà «ma la fai finita con tutte quelle ballate?» (inciderà “Tumblin’ Dice”, e la canterà, divertendosi molto, con gli Stones dal vivo… «bisogna stare attenti con Mick, se non sei vigile ti passa sopra…»).

Poi cominciamo, appunto, con le ballate: “It Doesn’t Matter Anymore” è il pezzo che nel ’58 Paul Anka aveva scritto per Buddy Holly, uscito postume all’inizio del ’59 dopo il suo incidente aereo, #1 in G.B. per Buddy, le royalties generosamente donate da Anka alla vedova.


Una storia (ma va?) di cuori infranti, e lei che si rassegna, «suppongo che non conti più, adesso»; la pedal steel-guitar di Sneaky Pete Kleinow evoca quel tono country che in Linda è sempre stato più che presente, e che rimarrà una sua caratteristica costante, tanto che sia gli album che i singoli faranno sempre leggermente meglio nelle classifiche country.

Non a caso, vince il Grammy come miglior interpretazione nella categoria relativa. Puro country anche “I Can’t Help It”, superclassico di Hank Williams Sr., il decano dell’America campagnola. Un terzo brano in questa vena è “Keep Me From Blowin’ Away”, di Paul Craft, autore di puro Nashville sound.

Poi ci sono le canzoni degli autori contemporanei, generalmente californiani di nascita o di adozione: “Faithless Love”, amore infedele, è scritta da J.D.Souther, che di queste cose mi sa che se ne intende, e la accompagna anche come seconda voce. James Taylor fornisce “You Can Close Your Eyes”, e di Lowell George/Little Feat sceglie la bellissima “Willin’’.

Dal giro degli Swampers di Muscle Shoals arriva “Dark End Of The Street”, un’altra storia di amore inconfessabile, due amanti che si ignorano di giorno e di notte si incontrano «nella parte buia della strada».

Rimane la title-track, scritta da Anne, una delle due sorelle McGarrigle, anche loro imbevute di musica popolare americana, ma di quella alta. Non a caso, un po’ scherzando un po’ no, quando le chiedevano ragione di tutte quelle canzoni del passato, Linda rispondeva che le servivano per fare riempitivo in mezzo a quelle delle McGarrigle, o di Jimmy Webb, o di Randy Newman – gli autori seri, insomma.

È un brano di bellezza infinita, struggente come tutte le storie d’amore che finiscono: «Dicono che il cuore sia come una ruota/quando lo rompi non puoi ripararlo/Ma il mio amore per te è come una nave che affonda/e il mio cuore è là su quella nave in mezzo all’oceano».

È Linda al suo massimo, sa evidentemente come interpretare una storia d’amore, perlopiù dolorosa, ci si mette dentro e non ne esce più. Lei ha un grande dono, ed è quello che la sosterrà per tutta la carriera: una voce così melodica che sembra impossibile, rotonda, piena, capace di accarezzare e blandire, o riempire qualsiasi canzone, che sia che sia rock o country o pop o country-rock. Sa estrarre da una canzone la parte più nascosta, più vulnerabile. Senza esagerare, e senza tentare di essere qualcosa che per natura e formazione non può essere.

Avrebbe senso consigliarvi un “Greatest Hits”, lì ci sono tutte quelle che probabilmente avete sentito, almeno una volta, mille volte se siete stati negli Stati Uniti in quegli anni. Però lei stessa ha detto di preferire le canzoni meno istantanee, più nascoste in mezzo alle pieghe degli album, e tutto sommato “Heart Like A Wheel” (e una volta tornata alla Asylum “Prisoner In Disguise” e “Small Dreams”) offrono un ritratto migliore di chi è davvero Linda Ronstadt, e la palette di colori da cui sceglie.

È stato scritto che «se non fosse stato per la Ronstadt, molti ragazzi di questa generazione non avrebbero mai conosciuto Chuck Berry o Buddy Holly». Anche. Ma secondo me il grande merito di questa ragazza tanto carina quanto ostinata, tanto intonata quanto estesa vocalmente (il padre la chiamò «la mia soprano» da quando andava all’asilo) è stato in quegli anni di aver aperto al grandissimo pubblico un’intera scuola autoriale americana.

In questo senso, se prendiamo i suoi album degli anni ‘70 abbiamo di fronte un Canzoniere del meglio espresso dal mondo cantautorale in senso lato: oltre ai tanti già citati, troveremo canzoni – e non necessariamente le più famose – di Elvis Costello e Jimmy Cliff, Elvis Presley e Mark Goldenberg, Neil Young e Dolly Parton, Karla Bonoff e Eric Andersen, Buddy Holly e Willie Nelson, Smokey Robinson e Holland-Dozier (Tamla-Motown), Warren Zevon e Roy Orbison.

Il Great American Songbook, per gli amanti del rock, è questo, non quei tre che interpreterà più avanti nella carriera, quando la formula-anni-70 comincerà a mostrare il segno. Ma, l’abbiamo già detto, la ragazza è parecchio cocciuta, fa quello che vuole.

Questi album, suonati dai super-turnisti che siamo abituati a leggere nelle note di quella generazione – il fedele, e grande, chitarrista Waddy Wachtel e Andrew Gold, David Lindley e i vari Eagles, il vecchio amico Kenny Edwards e Dan Dugmore alla steel, Russ Kunkel e Maria Muldaur ed Emmilou Harris – sono “il suono della West Coast”, fotografia assoluta del periodo storico nel quale, fra l’altro, sono cresciuto.

Quando c’era bisogno di qualcosa di morbido, piacevole, easy ma di qualità, c’era sempre Linda da poter mettere sul piatto. Trovatene una così, adesso.

Carlo Massarini - Fonte | linkiesta

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