A Love Supreme, «grazie Dio»

La sinfonia interiore e l’amore supremo di John Coltrane

«All praise to God. Questo album è la mia umile offerta a Lui. Un tentativo di dire “Grazie Dio” attraverso il nostro lavoro, come facciamo nei nostri cuori e con le nostre lingue. Che Lui possa aiutare e rafforzare tutti gli uomini in ogni buona impresa».
Questo è quello che John Coltrane scrive nelle note di copertina di quello che – per moltissimi- non è solo il disco più famoso, più venduto e più importante della sua carriera.

È anche uno degli album di jazz più importanti che siano mai stati incisi. Un album profondamente spirituale, capace di innalzare lo spirito, portarlo su altri piani. Un album la cui energia e il cui significato è direttamente connesso con altri mondi, altre consapevolezze, altre illuminazioni. Costruito come una suite in quattro movimenti (Ackowledgement/ Resolution/Pursuance/Psalm), una sinfonia interiore piuttosto che una semplice sequenza, è un lavoro di intensità emotiva epica, nel quale Coltrane, al picco delle sue energie e della sua creatività, infonde tutta il suo amore e la sua devozione per l’Altissimo. Un uomo evidentemente, totalmente, in una missione di fare musica che – al di là del valore estetico o critico – possa essere di ispirazione e di aiuto per la gente.

È esattamente quello che si era proposto nel 1957, al momento in cui era stato licenziato da Miles Davis, che vedeva come la tossicodipendenza da eroina di quel giovane sassofonista, ormai famoso, destinato forse a diventarlo ancor più, fosse d’intralcio alla sua musica. Non era la prima volta che Coltrane veniva licenziato per quella brutta abitudine che aveva contratto nei suoi primi anni di professionismo.

Nato nel 1926 da famiglia estremamente religiosa nel North Carolina (due nonni ministri, una frequentazione assidua della Chiesa Metodista di quartiere), John cresce con queste due presenze fondamentali nella sua vita: l’amore per la musica e la spiritualità. Siamo – come cultura, come socialità- nel Sud, dove la segregazione e le infinite difficoltà collegate condizionano la vita di qualsiasi ragazzo. L’importanza della Chiesa “nera” è grande, tiene insieme le famiglie, dà un senso e un’ossatura alla comunità, mette in contatto i giovani con la possibilità di convertire, di trasformare il loro dolore in arte. È la tradizione da cui usciranno tutti i cantanti di gospel, poi di soul e r’n’b.

Lo è anche per questo ragazzo alto e dai lineamenti gentili, figlio unico, taciturno, che a dodici anni vede morire in pochi mesi padre, nonni, uno zio, e si attacca al suo sassofono come una ciambella di salvataggio. È ancora un teenager quando vede per la prima volta il più grande jazzista dei tempi, quel Charlie Parker che sta rivoluzionando lo stile, la tecnica (doppia velocità rispetto al normale), le prospettive dello strumento.

Per Coltrane è la scintilla: non solo è tramortito dalla furia e dalla intensità di Byrd, ma in lui vede il coraggio di andare contro corrente, di sfidare le convenzioni, di andare oltre. Nel 1949 entra nel gruppo di Dizzy Gillespie, che vede qualcosa in lui che forse neanche John sa riconoscere, lo cura, gli insegna, ma alla fine lo deve licenziare (in due riprese, perché la prima volta lo perdona) per la sua dipendenza, che non lo trasforma in un mostro con cui è difficile relazionarsi, ma certamente lo rende poco affidabile.

Poco dopo, entra nel gruppo di Miles Davis, ma quando anche Miles, stanco del suo rapporto con l’eroina (che ben conosce, anche lui se n’è dovuto tirare fuori) lo licenzia, Coltrane sa che è a un bivio, può andare su o giù: seguire le orme di Parker, e finire male, o ripulirsi, e puntare verso l’alto. Sceglie di disintossicarsi da solo, a casa, il cold turkey che per giorni lo stravolge, lo fa stare malissimo, mentre la moglie Naima e la figlia adottiva cercano di aiutarlo, impotenti. È questo il momento decisivo della sua vita: si affida totalmente a Dio, «ho chiesto umilmente di avere il privilegio di rendere la gente felice attraverso la mia musica».

Non aderisce a nessuna religione in particolare, diffida di chi afferma che la sua religione è quella giusta, presupposto per dire che tutte le altre sono sbagliate. Le studia tutte, anche le orientali, ma è in cerca di qualcosa di Assoluto. Ha detto Sonny Rollins, suo amico e altro gigante del sax, «c’è la small picture e la big picture: Coltrane era in cerca della grande, la celestiale, cercava altri mondi in questo mondo». O, come dice Santana, «c’è chi suona reggae, chi jazz, chi blues. Coltrane suona la vita».

Coltrane, estremamente brillante non solo musicalmente ma anche intellettualmente studia, legge, ammira Einstein oltre che per le sue scoperte per la ricerca continua, per le grandi domande, cosa stiamo facendo qui, dove possiamo andare.

L’uscita dal tunnel dell’eroina lo rende più forte, la creatività e l’energia si alzano di livello, pubblica il suo primo album solista e riprende anche il suo posto al fianco di Miles, partecipando alla creazione di un album storico per il jazz, “Kind Of Blue”.

Miles gli lascia molto spazio, e i suoi assoli diventano sempre più intrecciati, più complessi, più lunghi. Tanto che un giorno, leggenda racconta, Miles glielo fa notare. «Non riesco a trovar un buon punto per fermarmi» è la risposta. E Miles: «Che ne dici di tirar via il sax dalla bocca?».

Questa volta non ci sono problemi di droga, ma è lui che si licenzia. Dice che quello che sta suonando con Miles «non è corretto», non più in sintonia, la verità è che ormai la sua personalità è troppo grande per un gruppo che va in un’altra direzione.

Cambia etichetta, dalla Prestige alla Atlantic, e pubblica “Giant Steps”, il primo di una serie di album nei quali entra in territorio “free”, in cerca dell’oltre, attraverso una innovazione senza soste, che comincia anche a dividere fan e critica, la rivista Down Beat parla di lui addirittura in termini di ‘anti-jazz’.

Incide un album di classici, “My Favorite Things”, che viene accolto trionfalmente, i suoi 14’ sulla title track di Rodgers e Hammerstein, da un musical di Broadway che lui rigira e dal quale estrae meraviglie, lascia a bocca aperta.

Ma ascolta di tutto, anche la musica classica, quella indiana, cercando una sua musica che possa avvicinare le persone attraverso la consapevolezza spirituale. Quando arriva la notizia che quattro ragazzine sono state uccise con una bomba in una Chiesa di Birmingham da parte del Ku Klux Klan è sotto shock come tutto il popolo nero. Compone “Alabama” “traducendo” in musica il sermone che dedica a questa tragedia il Reverendo Martin Luther King: un brano che parte sereno e a metà, all’arrivo della bomba, si trasforma in caos, distruzione, morte: «Una meravigliosa eulogia, che grida di dolore», dirà Bill Clinton, appassionato fan e sassofonista a tempo perso.

Nel frattempo (e tutto questo succede nello spazio di quattro anni, dal ’57 al ’61!) è passato all’appena nata Impulse!. Su suggerimento del suo nuovo produttore, Bob Thiele, registra alcuni album più “accessibili”, e poi, nel 1963, comincia a lavorare a “Love Supreme”.

È il progetto della vita, e lo sa anche lui. Si chiude al piano di sopra della villetta a Long Island dov’è andato ad abitare con Alice, sua seconda moglie che gli ha dato già due figli (ne arriverà un terzo), scendendo solo per mangiare un boccone. Chiuso settimane senza parlare con nessuno, sempre a scrivere, senza sosta. Alla fine, scende e dice orgoglioso: «È la prima volta che entrerò in studio con tutto pronto».

Il momento è arrivato, tutte le stelle sono allineate: il suo quartetto, con Elvin Jones alla batteria, Jimmy Garrison al contrabbasso, il giovane prodigio McCoy Tyner al piano, e lui a una varietà notevole di strumenti a fiato (alto sax, tenore, ma anche flauto), è “history in the making”.

Soprattutto, i quattro parlano la stessa lingua, corrono avanti veloci nella stessa direzione. Le performance sono innovative, stringate, e la costruzione dell’album è proprio la metafora di un viaggio spirituale interiore: il primo brano, “Acknowledgement” (quello con il titolo cantato) rappresenta il risveglio.

Il secondo, “Resolution”, bellissima melodia, è la disponibilità e la determinazione di seguire il percorso. Il terzo, “Pursuance”, è la lunga, faticosa ricerca sul cammino, e sfocia nel quarto, “Psalm”, ovvero l’illuminazione.

Sono solo 30 minuti, concisi, nulla di innecessario, nei quail Coltrane non tocca i suoi tasti più estremi, rendendo volutamente l’album accessibile a tutti. Un album nel quale incapsula tutto quello che è venuto prima, musicalmente ed esistenzialmente.

Un album audace nel volersi rapportare alla divinità, rappresentando la sua anima attraverso la musica (che lui, peraltro, chiamava “Coltrane music”, considerando “jazz” solo il nome con cui viene venduta). È un album umile e glorioso, pieno di gratitudine e di desiderio di condivisione di un’esperienza trascendente.

Che si ricollega, idealmente e di fatto, con quel momento del 1957 in cui arrivò la folgorazione, in cui con l’aiuto di Dio era riuscito a salvarsi, e aveva chiesto di potersi dedicare ad aiutare gli altri attraverso il suo strumento. Perché il sentiero è stato lungo (non in termini di tempo, tutto è successo in soli 6 anni, ma di intensità stordente), ma l’obiettivo raggiunto.

«Un suono che è un vortice di possibilità, un suono di luce e amore», lo definisce Santana. «Un suono che viene dalle profondità interiori, luminoso come il sole», dice Kamasi Washington, forse il suo erede contemporaneo più acclarato. E McCoy Tyner: «Non esistevano questioni di ego, nel gruppo. Ognuno di noi sapeva molto bene perché eravamo stati messi qui».

Nei due anni e mezzo successivi, prima di esser portato via da un tumore al fegato fulminante, Coltrane cambierà ancora direzione, sciogliendo il quartetto, affiancandosi un secondo sassofono, quello di Pharoah Sanders, e sostituendo Tyner con la moglie Alice (che avrà anche lei una carriera straordinaria), continuando a spingersi verso i limiti estremi, dopo esser partito dal Bebop, aver assaggiato il Cool Jazz, dopo aver scorrazzato in territorio “libero” ed esser riuscito in quello che si augurava: «La mia musica è l’espressione spirituale di quello che sono, di quello che è la mia Fede, la mia conoscenza, il mio essere. So che ci sono forze negative che portano miserie e dolore al mondo. Io voglio essere una forza opposta, la forza del bene». La forza dell’Amore Supremo. Amen.

Carlo Massarini - Fonte | linkiesta

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