The Jesus And Mary Chain - Glasgow Eyes (2024)

di Tommaso Iannini

«La gente dovrebbe aspettarsi un disco dei Jesus and Mary Chain e questo è certamente ciò che è Glasgow Eyes.» Grazie Jim, in quanto a tautologie noi “critici” andiamo forte, ma se anche gli artisti da questo punto di vista ci danno una mano è più un indizio di mala sopportazione o di solidarietà? Qualunque sia la motivazione, questa esternazione di Jim Reid è a suo modo illuminante. La chiave di lettura di questo nuovo disco dei Jesus and Mary Chain è da un lato la più semplice. Ma una volta che siamo tutti d’accordo che Glasgow Eyes porti la firma riconoscibile dei suoi autori, cosa ci si aspetta allora da un disco dei fratelli Reid? Un sound? Veramente ne hanno cambiati almeno tre o quattro: Psychocandy è stato quello che è stato, Darklands aveva volutamente un altro suono, Automatic un altro ancora, per non parlare di Stoned and Dethroned. E per limitarci ai tempi più recenti questo non è nemmeno un remake di Damage and Joy, l’unico altro album nato dalla reunion degli ultimi anni, ci sono particolari che saltano subito all’orecchio – e non sono il jazz di cui si parla nel comunicato stampa. Il rumore, lo sappiamo, va viene, anche se qualcuno li ricorda solo per quello. Ciò che distingue Jim e William Reid e i Jesus and Mary Chain non è nemmeno il loro fare di tutto un po’ ma di tutto un pop. L’anima delle loro canzoni è strofa/ritornello. Da sempre. Ai tempi in cui sfasciavano le chitarre ci insegnavano che il rumore, appunto, era pop (vedi la nostra monografia). E la vera costante dei loro dischi migliori sono le melodie – romantiche come quelle di Burt Bacharach o dei gruppi vocali anni ’60, adrenaliniche come quelle dei Ramones o tossiche come quelle dei Velvet Underground o addirittura scoppiettanti come quelle dei Beach Boys stile surf… ritmate, lente, stordite dal feedback, triggerate dalla drum machine, graffiate o accarezzate e riverite dalle chitarre, puntellate dai fiati in pieno relax USA ma sempre melodie-melodie e fornite di quei colori armonici tendenti al dark che sono diventati da subito la grafia inconfondibile di una penna e il timbro caratteristico di una voce scozzese e baritona. In Glasgow Eyes, in cui si respira aria di casa fin dal titolo, sulle loro affinità e influenze Jim e William giocano addirittura in due divertenti tributi come The Eagles and the Beatles e Hey Lou Reid, che hanno tutto l’aspetto di ironiche dichiarazioni di poetica retrospettive.

La cosa paradossale è che questo album contiene un momento di rottura esplicito che però dura venticinque secondi, quelli iniziali di solo bombardamento elettronico di Venal Joy. E se per il resto i Reid fanno (anche) con i synth quello che un tempo facevano con il feedback e il fuzz, sporcare, aggredire, il pezzo ha una linea orecchiabile che non si discute – e si ama se si è fan: un deli-vizioso (se ha accettato “petaloso” la Crusca potrà digerire anche questa) brano accelerato con la carica sprezzante del loro miglior rock and roll. Parafrasando quello che scriveva Diego Ballani a proposito di Damage and Joy, i Mary Chain sono ancora i migliori Mary Chain in circolazione, proprio perché la materia che maneggiano è indiscutibilmente la loro e quindi possono anche farsi il verso, imitarsi sapendo di non farlo mai fino in fondo. Proprio in quanto autoreferenziale, Jamcod è l’esempio perfetto. Con quei tre accordi sembra di tornare ai tempi di Psychocandy ma in chiave power-electronics. Second of June sarebbe stata perfetta per Darklands se ai tempi oltre alla drum machine i fratellini di East Kilbride avessero usato più tastiere elettroniche al posto delle chitarre acustiche. E meglio di tanti epigoni gli originali i Mary Chain sanno come rendere la “formula” ancora sufficientemente fresca da non stancare.

La relativa novità di Glasgow Eyes è in effetti una mano di elettronica molto più spessa e incisiva della media dei dischi della band. Se l’amore che William e Jim nutrivano per i Suicide conoscendoli non meraviglia affatto, quanto amassero i Krafwerk non era forse mai venuto a galla in maniera come in Silver Strings o in una Discotheque che occhieggia pure agli amici Primal Scream. Parliamo dei Kraftwerk pionieri del synth-pop di Die Mensch-Maschine/The Man-Machine, e a proposito Chemical Animal è una ballata Jesus & Mary Chain trasformata in ottimo dark-electro-pop. È proprio Hey Lou Reid, il pastiche di pezzi ispirato ai Velvet Underground (e a se stessi), la chiusura più sincera con cui “riportare tutto a casa” come volevano i Jesus And Mary Chain. Chiamatele canzoni, o canzonette, se volete; questo i fratelli Reid hanno sempre fatto e continuano a (saperlo) fare.

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