Charlie Parr - Little Sun (2024)

di Gianfranco Callieri

Nato ormai più di mezzo secolo fa nella Mower County del Minnesota, zona orientale dello stato (al confine con lo Iowa) dalla quale non si è mai spostato, nonché origine di improvvidi paragoni con un certo Bob Dylan, Charlie Parr ha impiegato metà della propria vita per costruirsi una fama da outsider assoluto del country-blues, intento a registrare (una pletora di) dischi nelle condizioni più improbabili e scricchiolanti, devoto alle configurazioni più arcaiche e spartane della cosiddetta old-time music. Figlio di operai, entrambi sindacalisti nell’industria della carne, il musicista avrebbe potuto sin qui essere scambiato, almeno a giudicare dai suoi numerosi e spesso stropicciati lavori, per uno dei folksinger sbucati dalla collezione a 78 giri di Harry Smith, l’eclettico collezionista cui si deve la celeberrima Anthology Of American Folk Music (1952), primo e insuperato tentativo di dare ordine, struttura e sistemazione alla musica popolare degli Stati Uniti all’inizio del ‘900.

Quell’opera vide la luce per Folkways, l’etichetta - creata da un altro erudito di nome Moses Asch - dedicata alle tradizioni sonore provenienti da ogni latitudine, dal 1987 entrata a far parte, in qualità di "costola" discografica, delle istituzioni museali facenti capo al gruppo Smithsonian. Curiosamente, anche se alcuni segnali erano visibili già da tempo, è proprio dopo essere nel 2021 approdato alla Folkways che Parr ha iniziato a "normalizzare" oltremodo la sua musica, disinfettandone le ferite, smussandone gli spigoli e spazzando via ogni residuo granello della benefica follia mostrata in precedenza. Tale processo di sanificazione giunge oggi a compimento in questo Little Sun, addirittura prodotto da Tucker Martine (Decemberists, My Morning Jacket, Sufjan Stevens) e suonato in affiancamento a professionisti di indiscusso calibro (su tutti, la strepitosa chitarrista Marisa Anderson), responsabili di arrangiamenti così raffinati, eleganti e studiati da risultare se non altro stupefacenti anche solo per il fatto di apparire in un disco attribuito a Charlie Parr, e per di più targato Folkways.

Sarebbe in effetti inutile ricercare nell’honky-tonk anni ’70 della title-track, negli inappuntabili riff elettrici dell’iniziale Portland Ave., nel blues prima solitario poi corale e folkie della lunga Bearhead Lake, nelle tastiere da barrelhouse della festosa Boombox o nel divertito shuffle per violini countreggianti della gracchiante Ten Watt qualche traccia del primitivismo di un tempo, delle passate genuflessioni alla forza espressiva e agli sbandamenti di Dave Van Ronk, Howlin’ Wolf, Jimmie Rodgers etc. Il che vorrebbe dir poco, soprattutto se le mutazioni linguistiche di Parr rivelassero una loro sostanza e un loro fascino. Invece, per quanto a lungo si possa ascoltare una ballatona onirica come Pale Fire, ancorché perfettamente eseguita e cantata in un sognante soundscape di percussioni, organo, contrabbasso e cori, non dico mandarla a memoria, ma anche solo frequentarla con affetto, risulta praticamente impossibile.

Con questo non voglio dire che Little Sun sia brutto, perché non può esserlo un disco in cui trovano spazio l’elegia proletaria di Stray o il quasi rock & roll in quota Grateful Dead dell’ultima, visionaria Sloth. Di certo, però, non contiene (più) elementi a sufficienza per distinguersi dal post-minimalismo e dalle banalità di tanto indie-qualcosa contemporaneo. Ben confezionato e meglio congegnato, Little Sun sembra volere restituire all’ascoltatore medio - quello da playlist di Spotify - un’immagine predigerita, quindi depotenziata nei suoi aspetti più caratteristici, della freakerie tra country, blues e folk di Charlie Parr. Ma si ferma alla superficie, alla dimensione esteriore, alle sicurezze formali dell’esercizio di stile.

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