A Change Is Gonna Come | Sam Cooke e la canzone del cambiamento che ha indirizzato la storia

Quando si pensa alla storia del soul music, non si può tralasciare il posto d’onore per Sam Cooke, voce di seta se mai ce n’è stata una. Perché quella derivazione dal gospel, la soul music come la conosciamo, l’ha praticamente portata lui al grande pubblico, mentre lasciava alle spalle l’esperienza con il suo primo gruppo, gli Soul Stirrers, puro gospel, e intraprendeva quella di artista ”secolare” (tradotto in italiano, ”laico”).

Bisogna tornare indietro, alle radici, all’inizio degli anni Cinquanta, quando Cooke, nato Cook in una delle città-tipo del Delta, Clarksdale, Mississipi, e poi trasferitosi a Chicago con il padre predicatore in una delle Chiese della South Side, entra nel suo primo gruppo vocale professionista, gli Stirrers. I quartetti di gospel, con le loro armonie all’unisono che possono sfociare nella poliritmia, quel ritmo serrato da jam estatica domenicale, capaci di incendiare le platee della comunità nera, sono le star dell’epoca. E vivono – nonostante il fattore religioso – un stile di vita non lontano da quelle laiche, compensi a parte: baldorie, ore piccole, eccessi. La chiamano Gospel Highway, è il network di luoghi, esclusivi alla comunità nera, dove sono perennemente in tour decine di ‘quartets’ fra cui i più famosi sono i Dixie Hummingbyrds, Swan Silvertones, Five Blind Boys of Alabama.

Rimarrà con gli Stirrers sei anni, facendolo diventare il quartetto vocale più famoso e rispettato della sua generazione, e aderendo strettamente al significato religioso del gospel. I titoli delle canzoni non lasciano dubbi: ‘Jesus Gave Me Water’, ‘I Love The Lord’, ‘Jesus Wash Away My Troubles’, ‘Since Jesus Came Into My Heart’, ‘How Far Am I From Canaan’, ‘Must Jesus Bear This Cross Alone?’, e via pregando. Cantano traditional e molte composizioni sue, fra cui ‘Till Jesus Calls Me Home’, in cui come una voce dolce come il miele invoca Gesù: «Canterò finché Gesù non mi richiamerà a casa».

Ma Sam non vuole rimanere confinato al gospel, è uno dei primi in assoluto a voler arrivare a tutti, senza barriere di razza, genere o età, vuole aprirsi, pur in mezzo a mille dubbi. Sono gli stessi che, sull’altro lato del filone di black music, hanno gli artisti di r’n’b/r’n’r delle origini, come Little Richard: in quegli anni, il tradimento della vocazione religiosa delle proprie canzoni è ancora proibito, il r’n’r o il r’n’b o il blues sono considerate non solo musiche laiche, ma del diavolo. Cooke riceve supporto dalla persona più improbabile, il padre Pastore: «Mi disse che non era importante quello che cantavo, che Dio mi aveva dato una voce e un talento musicale, e che il vero significato di questo dono era di condividerlo e rendere la gente felice».

Il primo singolo, ’Lovable’ lo incide con uno pseudonimo, Dale Cook, ma non inganna nessuno, solo lui ha quella voce, e viene estromesso dagli Stirrers. Poco male. Il primo 45 del nuovo corso, certificato con l’aggiunta di una ‘e’ finale al cognome e una vera etichetta, la Keen, è una versione ‘pop-olare’ di un inno gospel: 1957, ‘You Send Me’, #1 in entrambe le classifiche, due milioni di copie, crossover r’n’b e pop, e pietra miliare di un nuovo genere, un mix di gospel, pop e r’n’b. Il Soul appunto, anche se nessuno lo chiama ancora così. Ma se sentite le incisioni degli Stirrers, ci siamo già, cambiando le parole, e con arrangiamenti meno tradizionali, il nuovo genere già esiste.

Cooke non è solo un angelo nero con voce paradisiaca. È anche un consapevole businessman di sé stesso: nel 1960, dopo tre album (uno dei quali “A Tribute To The Lady”, Billie Holiday) lascia la Keen, dove da esemplare crossover artist fra la Chiesa e il pop ha fuso due sensibilità apparentemente lontane. Nel farlo, da una parte ha fatto arrivare il sound del mondo afroamericano (ma mica lo chiamavano ancora così, i neri erano ancora niggers un po’ dovunque) a un pubblico nuovo, più largo (quello bianco insomma); dall’altra è diventato un role model per qualunque nuovo cantante – e ce ne sono migliaia, non necessariamente consegnati alla storiac- voglia seguirlo (avete idea di quante Chiese con un predicatore e dei cori ci siano, nel Sud degli Stati Uniti?). È un uomo di successo, e rappresenta una nuova generazione di ragazzi afroamericani: non è solo un cantante, è una persona che vuol essere in controllo della sua carriera artistica e finanziaria.

Quindi sceglie la grande RCA che gli lascia mantenere le sue Edizioni musicali (Sam è autore di quasi tutti i suoi brani) e soprattutto ottiene la proprietà di tutti i suoi master, inaudito. Crea la sua Casa discografica indipendente, la SAR, dove accoglie e produce altri talenti, come Bobby Womack e Johnnie Taylor, il suo successore negli Stirrers. In ultimo decide di affidare i suoi affari a un (bianco) giovane rampante, Allan Klein (che troveremo dieci anni dopo a litigare con McCartney prima e Stones poi): come dire, apripista, anche su quelle sbagliate (ovviamente con Klein ci saran di mezzo gli avvocati). Un intreccio con gli Stones comunque si crea: Womack scrive per il gruppo che ha formato coi fratelli, The Valentinos, una canzone che entra in classifica, ‘It’s All Over Now’. Festa alla SAR, finché gli Stones non decidono di farne una cover beat, e arrivano al #1 nel mondo. Womack è molto infastidito dal fatto che i Valentinos siano stati ‘cancellati’, finché Cooke – il discografico Cooke – gli dice: «Ti dà fastidio adesso. Un giorno capirai». Il giorno che arriverà il primo assegno delle royalties.

Tutto questo sta in piedi perché Sam Cooke è una star, che mantiene l’equilibrio fra radici e mercato in maniera così charmant che è difficile non rimanerne affascinati. Come dice uno dei suoi pupilli, Ben E. King, il cui superhit ‘Stand By Me, perfetto esempio del crossover, è ripresa da un gospel, ‘Stand By Me Lord’: «Partiva la prima canzone e lui stava lì seduto, non aveva ancora mosso un passo, e il pubblico era già in estasi. Non so come facesse. Era un modello per tutti noi».

Elegantissimo, completi tagliati a pennello, cravatte sottili e scarpe lucide, quel sorriso da angelo dalla faccia sporca, il labbro inferiore sempre a fare boccuccia, occhi che sprigionano ammiccamenti di tutti i tipi, Sam si muove in maniera così stilosa e invitante, così dinoccolata e swingante, da essere irresistibile. Come un giovane Frank Sinatra nero, nato al Sud e, soprattutto, con un messaggio. O come l’idolo prima di lui, Nat King Cole. Fino al 1964, quindi poco prima di morire, la maggior parte dei suoi fan bianchi non sa neanche del suo passato, a cantare gospel e spirituals.

Durante tutta la carriera di popstar si uoi messaggi sono in codice, cifrati per un pubblico nero che lo conserva come una cosa fra di loro: il secondo singolo per la RCA gli viene in mente in tour guardando i prigionieri che lavorano incatenati al bordo della strada: ‘ho!-ha!’, un semplice doppio ritmo che regge la melodia, con solo i suoi a riconoscere il messaggio nascosto (che ne sanno i ragazzi bianchi delle chain gang? suonava solo bene). Mentre gli album hanno spesso poca personalità, un po’ troppo orchestrati, la stringa di 45 fra il 1960 e il 1964 è impressionante, 29 nella Top 40, e non solo rimarranno pietre fondanti del Soul, ma saranno così influenti sugli artisti rock da garantirsi nel 1986 (e di nuovo nel 1989 con gli Stirrers) l’ingresso anche nella R’N’Roll Hall of Fame: ‘What A Wonderful World’ (l’ultimo Keen), ‘Cupid’, ‘Twistin’ The Night Away’,  ‘Bring It On Home To Me’, ‘Good News’, ‘Another Saturday Night’, ‘Shake’. 

Nel 1963 riesce anche a incidere un album che lo rappresenta davvero, “Night Beat”, un 33 bluesy senza hits ma con un tono notturno e d’atmosfera che mette in primo piano la sua voce: niente arrangiamenti d’archi o patinature per un facile crossover, la maggior parte delle canzoni sono accompagnate da un quartetto, quando non addirittura solo dal contrabbasso. Un trionfo di album, e una strana dicotomia, confermata dai due album live del periodo: uno, “Live At Copa”, dichiaratamente inciso di fronte al pubblico dei night club, generalmente bianco e facoltoso; poi, ci sono gli spettacoli di fronte a un pubblico più nero, più vicino alle sue origini, che sarà catturato (ma uscirà solo 20 anni dopo) in “Live At The Harlem Square”, molto più viscerale, scatenato, libero di fare sé stesso fino in fondo. 

A volte, però, le storie non hanno un lieto fine. Cooke perde quasi tutto il 1963 distrutto per l’annegamento del terzo figlio Vincent di pochi mesi nella piscina di casa, e non sa ancora che anche la sua fine è vicina. L’11 dicembre 1964, cerca un posto dove finire la nottata con una donna. Diciamo che i rapporti con le due mogli non son stati proprio improntati alla fedeltà, del resto è sempre stato un womanizer, e di certo le ragazze non gli son mai mancate, fin dai tempi in cui lo guardavano, di sottecchio, sui palchi gospel.  

E qui le versioni divergono: la ufficiale è che dopo esser stato messo alla porta da molti portieri notturni (ricordiamo che a metà anni 60 il razzismo e segregazionismo in America erano ben diffusi, e non solo nel Sud), finisce in un alberghetto di terz’ordine in una parte malfamata di downtown Los Angeles. Litiga per qualche motivo con la manager, e il tutto sfocia in un colpo di pistola in pieno petto. Muore dicendo «Lady, what did you do? You shot me…».

Un omicidio mai del tutto chiarito, né investigato. Perché l’altra versione è che sia stato fatto fuori da due poliziotti in borghese, e i testimoni comprati. Da chi? Forse dava fastidio un afroamericano di così grande successo, un nero indipendente in un’industria di bianchi? Forse come segnale al Movimento dei diritti civili? Forse la Mafia per chissà qual motivo? Incredibile pensare che quest’uomo di 33 anni, bello come un semidio, ricco e conosciuto, influente e con il mondo ai suoi piedi possa fare una fine del genere in un luogo del genere. Ma era la sua ora, e Gesù l’aveva richiamato a casa.

Sul suo ultimo album, “Ain’t That Good News“, c’è una canzone a cui tiene molto. La scrive dopo aver sentito, l’anno prima, la canzone di un cantautore proveniente dal Minnesota, che comincia con “Quante strade dovrà percorrere un uomo/ prima che lo chiamino uomo?”. È lo stesso impatto che, da qualche altra parte d’America, investe gli Staple Singers: come fa un ragazzo bianco a sapere e cantare questo?, si chiedono entrambi. Perché c’è una connessione stretta, chissà se simbolica o casuale, con la way of life dei neri, che non venivano mai considerati ‘uomini’, ma ‘ragazzi’ senza dignità su cui comandare. Se guardate il clip dove la canta dal vivo, c’è l’essenza del divo-Cooke: senza muoversi troppo, solo le braccia e la faccia ad accompagnare il significato delle parole, un ritmo swingante sotto, agli antipodi dello scarno folk dylaniano, vedi insieme il grande entertainer e l’artista nero che vuol far arrivare quel messaggio, senza perderne una parola.

La canzone è uno di quei brani che indirizzano la storia. Come ‘Redemption Song’ di Marley, sono testamenti che racchiudono il senso di una vita. Si chiama ‘A Change Is Gonna Come’, ed è una preghiera, poetica e piena di fede, che ricorda molto i suoi gospel con gli Stirrers, ma con una grande orchestra ad accompagnarlo. Si parte dalla rievocazione del grande Mississipi, il fiume della black history:

«Sono nato vicino al fiume in una piccola tenda

E come il fiume sono stato in movimento fin da allora…

…È passato molto tempo, ma so che un cambiamento arriverà…». 

Impossibile mantenere gli occhi asciutti, c’è tutta la storia di un uomo e di un popolo in tre minuti. Viene pubblicata postuma, con cautela, sulla facciata B di ‘Shake’ (che contrasto!). Lui, idolo della black community e dello stesso Cassius Clay (che lo aveva chiamato a festeggiare nella baraonda sul ring dopo aver battuto nel 1964 Sonny Liston), aveva cominciato ad avere rapporti sempre più stretti con il Movimento dei diritti civili, ed è un lascito prezioso, che ne diventerà subito la colonna sonora.

Il Re è morto, ma non sarà dimenticato, se posso parafrasare tutt’altri artisti: il numero di cantanti che ha un debito enorme con Sam Cooke è infinito. A partire dagli stessi che sono cresciuti ascoltando le sue canzoni: Bobby Womack, che sposerà la vedova e avrà una relazione con la figlia Linda, la quale poi sposerà il fratello di Bobby, Cecil (che intreccio!), e insieme incideranno negli anni 80 bei dischi come Womack&Womack.  E poi Al Green, Otis Redding (che trionfa con ‘Shake’ sul palco del Festival di Monterey, 1967, vero primo crossover di black music nel contesto bianco/hippy), Aretha, Stevie Wonder. E anche i bianchi, da Van Morrison a Paul McCartney, dagli Animals a Garfunkel che interpreta la sua idilliaca ‘What A Wonderful World’. Ma il vero alter ego biondo è Rod Stewart, che riprenderà nel 1973 ‘Twistin’ The Night Away’, e che si modellerà totalmente e devotamente su di lui. Il senso sta tutto in una sua battuta, e non per ridere: «No Sam, maybe no Rod as well». Non ci fosse stato Sam, forse neanche Rod. E chissà quanti altri.

Per chi volesse approfondire, le raccolte con gli Stirrers sono gospel purissimo, “Night Beat” è forse l’Lp singolo migliore, fra i due live meglio “Harlem”. Rimangono, per poter assaporare tutto il suo meglio, due raccolte: “The Man and His Music”, uscito nel 1993, contiene 20 gemme di tutta la carriera, e la più recente “Portrait Of A Legend 1951-64”, 2001, è ancora migliore, 30 brani in qualità audio superiore. Io son cresciuto con la prima, e rimango fedele a quella, voi cercate la seconda. Come affondare le mani in un cesto pieno di monete d’oro.

Carlo Massarini - Fonte | linkiesta

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